«Dottorar le donne», senza paura
Una Serata sonora, interattiva, conviviale, con le persone che si stimano e si ammirano, quella che si è svolta venerdì 2 dicembre 2022 nel Salone «S. Elisabetta d’Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido e si è focalizzata sul tema: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia († 1684), la prima donna a potersi fregiare del titolo di Doctor», la 5ª della 10ª edizione del WikiCircolo dal «file rouge»: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›».
Sonora, con la strepitosa performance del soprano Maria Grazia Cucinotta che ha cantato tre famosi brani: 1. «Ave Maria» di Charles François Gounod († 1893), all’inizio; 2. «Agnus Dei» di Georges Bizet († 1875), a metà; 3. «Astro del ciel» di Franz Xavier Gruber († 1863), a conclusione, rendendo bello il nostro mondo, più melodico, armonioso e soave e meno monocorde, uniforme, soliloquiale e privo di ritmo.
Interattiva, con il sostanzioso panel, che grazie alle sue peculiarità ha infervorato i presenti. Le sue sequenze digitali, virtuali, da remoto, e reali, fisici, in presenza, si snodavano così:
3.1. Monologo di Lucia Schierano: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia» [I] (3:06′); 3.2. Dr. Maria Luisa Mauro: «Vicenda accademica di Elena Lucrezia» (15:00′); 3.3. Monologo di Lucia Schierano: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia» [II] (3:59′); 3.4. Intervista a Alessandra Schiavon e a Tatiana Corretto, funzionarie archiviste nell’Archivio di Stato di Venezia (5:04′); 3.5. Monologo di Lucia Schierano: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia» [III] (1:42′); 3.6. Dr. Piotr Anzulewicz OFMConv: «Dottorar le donne, senza stereotipi di genere e paura» (10:00′); 3.7. Condivisione (10:00′); 3.8. M° Maria Grazia Cucinotta: «Agnus Dei» di Georges Bizet († 1875), compositore e pianista francese; 3.9. Lettura del «Messaggio alle donne» di Paolo VI
Conviviale, con la commovente consegna di un ‘segno’ e di un attestato di ringraziamento alla M° Maria Grazia Cucinotta, da parte del M° Luigi Cimino, presidente del Circolo, e della sottosegretaria Lucia Scarpetta, e con il piacevole momento di fraternità, presso il buffet, amorevolmente preparato da Gabriela, Pina, Loredana, Lucia, Luigi e Iolanda.
Nell’insieme, una Serata eccellente per l’orecchio, l’occhio, il palato.., con un finale omaggio – come nelle Serate precedenti – alle donne ucraine: il video, proiettato da Ghenadi Cimino, operatore audiovisivo e sonoro, con la canzone patriottica Ой, у лузі червона калина (Oj u luzi červona kalyna; lett. “Oh, viburno rosso nel prato”), scritta dal compositore Stepan Čarnec’kyj nel 1914, virale attualmente in Ucraina, ma vietata severamente nei territori occupati dalla Russia, pena multe, prigione o esilio.
Emozionante Serata ha disegnato, in poco più di un’ora e mezzo, il ritratto della prima donna laureata al mondo, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, intellettuale veneziana e oblata benedettina, oltre al composito mondo culturale, sociale e politico della seconda metà del sec. XVII, tra Venezia e Padova. Elena Lucrezia, affamata di cultura vera, intraprese un cammino nuovo, solitario, quasi scandaloso eppure esaltante e bellissimo, quando alle donne era consentito soltanto il matrimonio o il velo. Si consacrò allo studio e alla passione intellettuale. Appoggiata dal padre Giovanni Battista, facoltoso patrizio e colto procuratore della Repubblica di Venezia, nascose dietro la vocazione alla severità un temperamento orgoglioso, ribelle ed appassionato. Sfidò i costumi dell’epoca e la mentalità contraria all’istruzione delle donne e, nonostante l’opposizione del card. Gregorio Barbarigo († 1697), vescovo di Padova, riuscì a sostenere e superare l’esame pubblico davanti a una moltitudine di persone. A lei i notabili del Sacro Collegio dell’Università di Padova, il 25 giugno 1678, attribuirono il titolo di «magistra et doctrix in philosophia» e le consegnarono le insegne del dottorato. Non però – come avrebbe voluto – in teologia: quando, per volere del padre di Elena, venne fatta richiesta di riconoscerle la laurea in teologia, la reazione del card Barbarigo fu senza appello: «È uno sproposito dottorar una donna, ci renderebbe ridicoli a tutto il mondo». A lui, come a tanti altri come lui, la storia non ha dato né darà ragione, con buona pace della misoginia, ecclesiastica e non solo, ancora imperante.
Elena Lucrezia, con la sua laurea, è diventata emblema della ricerca di uguaglianza e del riscatto femminile. Questo per teologhe cristiane ha significato recuperare gli infiniti reperti di protagonismo femminile presenti anche nella Bibbia e portarli alla luce nella loro autenticità, cioè liberarli dalle scorie secolari di un’interpretazione sessista o, per dirlo con la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, dal pericolo di un’unica storia, quella maschile. Un lavoro arduo, scandito da domande che continuano a martellare: «Perché il filo memoriale delle donne bibliche che abbiamo ricostruito – si chiede la teologa Marinella Perroni su «Re-blog. Il post della rivista Il Regno» – non ce la fa a diventare patrimonio comune delle nostre Chiese, nelle quali domina ancora un’interpretazione dei testi biblici del tutto funzionale al mantenimento di un sistema fondato sulla gerarchia dei sessi?». Perché, evocando il card. Barbarigo, ci sono ancora tanti “santi” uomini che considerano uno sproposito «dottorar le donne»? Come è possibile che, ancora oggi, nel recente documento della Conferenza episcopale italiana, consegnato il 12 luglio scorso alle Chiese locali per orientare il secondo anno del cammino sinodale, dal titolo «I cantieri di Betania», si ratificano e si veicolano dolorosi stereotipi che, oltre tutto, alterano la comprensione del racconto evangelico della visita di Gesù alle sorelle di Betania? Perché nel paragrafo «Il cantiere dell’ospitalità e della casa» (p. 9), quando si delineano i caratteri della Chiesa domestica, si afferma che in essa la comunità vive «una maternità accogliente e una paternità che orienta», senza rendersi conto che questa considerazione apre in realtà uno squarcio sugli stereotipi di genere che pesano come un macigno sulle nostre Chiese?
Ha ragione Anita Prati quando ricorda nel suo bellissimo articolo dal titolo Lo sproposito di dottorar le donne, pubblicato il 27 luglio scorso su SettimanaNews, il portale dei Dehoniani, che «l’arco di tempo, che ha visto le donne impegnate a sanare il divario secolare, anzi millenario, in termini di disparità di educazione, di libertà e di possibilità di scelta, rispetto agli uomini, è ancora molto breve», e cita le parole con cui, nel 1622, Marie de Gournay stigmatizza le conseguenze di una cultura fondata sulla gerarchia dei sessi: «Beato te, lettore, se non appartieni al sesso cui tutti i beni sono vietati, con la privazione della libertà, nell’intento di costituirgli come sola felicità, come virtù sovrane e uniche: l’essere ignorante, fare la sciocca e servire».
La strada da percorrere è quindi lunga e forse per ora c’è solo da sperare che un numero crescente di padri, e di madri, sollecitino e orientino le figlie allo studio, senza paura di «dottorar le donne». È una speranza che viene da lontano.
Piotr Anzulewicz OFMConv
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