A. I. Solženicyn († 2008), gran custode della memoria russa nel periodo sovietico, ci aveva ammonito che «il soffocamento del cuore di una nazione è la distruzione della sua memoria». Lo diceva agli inizi degli anni settanta del secolo scorso, quando la rescissione da ogni legame col passato era ritenuta obbligatoria per potersi sentire e dichiarare “progressisti”. Ora sembra che il clima sia cambiato. Ricordare e celebrare il proprio passato non è più percepito come “reazionario”. Nuove interpretazioni della propria storia si fanno strada tra luoghi comuni consolidati. Pochi continuano a negare che solo fondandosi su solide radici si può costruire un futuro migliore del presente. Eppure resta una sensazione di disagio, acuita dalle puntuali polemiche che accompagnano ogni ricordo. Forse “l’ideale” della rottura col passato che ha fatto scuola qualche decennio fa non è affatto superata. Gli interessi sono divergenti e la soluzione per i problemi differenti. Da qui la tendenza a ributtare indietro nel tempo il proprio punto di vista odierno. Questa è una dialettica comprensibile e costituisce anche il sale di ogni ricerca storica. La questione è più sottile, ed è la questione del senso. Essendo ormai data per scontata l’irrilevanza del problema del significato totale delle cose (la dittatura del relativismo), l’unico orizzonte esistenzialmente accettato è quello del presente, un presente “piatto”, senza prospettiva, senza un senso che, partendo dal passato, incroci il presente e si proietti sul futuro. In tal caso il passato, la storia, la memoria, non è nient’altro che un arsenale da cui trarre l’armamentario per la soddisfazione dell’interesse contingente oppure un deposito di storie avvincenti e più vicine alla logica del romanzo di fantasy che a quella dei fatti. I fatti sono “testardi”, come diceva S. Bulgakov († 1944), filosofo, teologo e scrittore russo, e per fare con essi i conti occorre quella certezza di senso che appare ormai frantumata. Anche in questo campo la Chiesa – che fonda tutta la sua consistenza sulla memoria di fatti – ha offerto un esempio straordinario: la “purificazione” della memoria. È possibile guardare con lealtà la propria storia piena anche di madornali incomprensioni, solo in forza di una certezza presente, che dà senso a tutto il cammino.
Chi non ricorda vive in una sorta di cono d’ombra e in questo cono d’ombra è condannato a vivere incubi e incertezze. Ma la memoria non si esaurisce in un flatus vocis, in un semplice dire. Nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente è scritto: «Ci apprestiamo a fare memoria» (n. 25). La memoria è qualcosa che ha a che vedere con il fare, con l’agire, con il praticare. Per questo è l’attività eminentemente umana, perché la parola in grado di creare, traendo la forza da se stessa, spetta a Dio, che dal nulla ha creato con il solo soffio della voce.
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