L’immensità della donna che ci ha generato

È stata ricca di reminiscenze, di incantesimi e, a tratti, di lacrime l’ultima Serata cinematografica [248ª] con la proiezione del trailer «L’immensità», in omaggio alla donna che ci ha generato, la 16ª Serata della 10ª edizione del CineCircolo dal «file rouge»: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›, per immagini», svoltasi venerdì 9 giugno 2023 al lato destro della chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido. Nostalgica, magica, struggente.

È iniziata con un ritardo di 40 minuti, causa la prolissa ‘predica’ e la florida Tredicina celebrata nel tempio. Rassegnata, ha preso corpo, come «input», con la canzone «Mama», estratta da Spice, album d’esordio delle affascinanti Spice Girls, che appena pubblicato, nel 1997, conquistò le classifiche e raggiunse il primo posto in Inghilterra, ma anche in Asia, dove, complice il periodo di uscita, furono in molti a sceglierlo come colonna sonora per la festa della mamma. La clip aveva come protagoniste proprio le cinque ragazze britanniche, poco più che adolescenti, che durante la canzone tengono in mano le foto delle loro madri e si rivolgono a un pubblico composto da madri e figli: «Mama, I love you». Melodia avvolgente, testo semplice fino all’ingenuità, vocalità serafica della «girl band», formatasi nel 1994 a Londra, ha segnato l’immaginario collettivo e ha formato dei presenti nel Salone di S. Elisabetta d’Ungheria un tutto organico.

È stato questo il «kairos», il momento giusto, al termine dell’11ª edizione del CineCircolo dedicata alle figure femminili straordinarie, per tuffarsi insieme, allacciati, connessi, uniti, nella relazione più importante della nostra vita, sentirne l’assoluto di un legame fondativo, riviverlo senza filtri, dai liti ai baci, dai pianti alle gioie, dai disastri ai successi, dalle disfatte alle vittorie. Un legame che evoca il viaggio, il percorso, l’itinerario della crescita, per raggiungere le ‘medaglie d’oro’, da bambini e bambine a uomini e donne. Crescendo con l’immensità della donna che faceva bella la nostra vita, abbiamo potuto smussare gli angoli duri del nostro carattere e apprezzare la relazione con le altre persone e con il mondo. Lei ci ha sempre accompagnato, amorevolmente, faticosamente e a volte dolorosamente, ma ne è valsa la pena.

La Serata, trasmessa dal fonico Ghenadi Cimino in diretta «streaming» sulla pagina social del Circolo, come del resto tutte le altre, ha seguito quindi la scaletta strutturata dallo Staff secondo una sequenza lineare. Dopo il saluto iniziale e l’introduzione del presidente Luigi Cimino, vi è stato un veloce sguardo sulla galleria delle foto della Serata precedente con la pellicola «Anna dei miracoli» di Arthur Penn [246], seguito dalla lettura della sinossi de «L’immensità» da parte della sottosegretaria Lucia Scarpetta e l’illustrazione del profilo del regista Emanuele Crialese da parte dell’arch. Giorgio Martelli.

La relazione con la madre è la tensione costante che fa vibrare la pellicola intera, presentata il 4 settembre 2022 in concorso alla 79. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (Festival di Venezia). È un viaggio autobiografico di formazione del regista e sceneggiatore romano-siciliano. Un omaggio alla sua infanzia, ma soprattutto alla donna che lo ha creato. «La donna per me – disse in una intervista – è la parte migliore dell’uomo che sono. Non è rinnegata, è viva dentro di me, l’oggetto dei miei desideri che ascolto più volentieri. È un campo di battaglia, il corpo della donna. Dà la vita, allatta, sa rinunciare e sacrificarsi. È altro, è di più. […] Io sono figlio del mio tempo, immaginate una donna senza libertà, che deve affrontare una questione come un figlio che non si sente rappresentato dal suo genere. Io mi nascondevo, e lei insieme a me. Mi è stata vicino, ha vissuto con me l’immensità. Un amore come quello materno è una benedizione, una grazia. Non è paragonabile a nient’altro». «L’immensità» racconta quindi cosa succede quando non abbiamo un limite e cosa ci facciamo della libertà quando non abbiamo dei legami. «Senza argini, un obiettivo da raggiungere di volta in volta, il corpo si disperde. Non siamo nati per vivere nell’immensità, siamo mortali».

Dopo la proiezione del trailer, dacché la pellicola intera non era ancora reperibile, lo Staff ha offerto un cinedibattito traboccante di curiosità, empatia e commozione, con il focus, appunto, sulla donna più cara, preziosa e splendida nella nostra vita. Riporto qui la scaletta di questo cinedibattito:

6.1. Lirica napoletana «Mamma» (2:14′. Music video «Per te, mamma, Dio ti ha tra sue braccia» di Lara Fabian (4:16′); 6.4. «Cos’è la famiglia» di StudentiTv (4.08′); 6.5. Papa Francesco: «Per le famiglie» (1:49′); 6.5. Lettera vera di una madre ad un figlio: «Chissà se ti ricorderai…» (2:34′); 6.6. Una storia struggente: «L’occhio di una madre…» (9:58′); 6.7. Condivisione: Tonia Speranza / Tina Quattromani / Marialuisa Mauro… (12:00′); 6.8. Music video «‘A mamma è sempe ‘a mamma» di Gianni Fiorellino (4:15′); 6.9. «Lettera di una madre a un figlio…» (3:55′); 6.10. Music video «Viva la mamma» di Edoardo Bennato (3:29′); 6.11. «Quando perderai tua madre...» (3:57′); 6.12. «Dedicato a mia madre» (2:38′); 6.13. Music video «Madre, io vorrei» del Coro Sommariva Perno (3:52′)

Ad aprirlo, la struggente poesia di un autore anonimo dal titolo evocativo: «Mamma», la poesia resa ancora più folgorante dalle immagini che illustravano quel legame viscerale, unico e totalizzante che lega una madre al suo figlio, come un invisibile cordone ombelicale che non si spezza mai e non conosce morte. Le parole: «Chi l’ha fatto era grande», risuonavano come il più tenero degli abbracci, come il gesto d’amore più assoluto. Esse esprimono, infatti, la forza inossidabile di un legame capace di andare oltre la vita e ben oltre la morte.

A concluderlo, il video music «Madre, io vorrei», dedicato a Maria, Madre di tutte le madri e di tutti i padri. Inteneriscono ancora il cuore di molti le parole, che accompagnavano le immagini di questo filmato, anch’esse pregne di gioia e dolore: «Io vorrei tanto parlare con te di quel Figlio che amavi / Io vorrei tanto ascoltare da te quello che pensavi / Quando hai udito che tu non saresti più stata tua / E questo Figlio che non aspettavi non era per te / Ave Maria […] Io vorrei tanto sapere da te se quand’era bambino / Tu gli hai spiegato che cosa sarebbe successo di Lui / E quante volte anche tu di nascosto piangevi, Madre / Quando sentivi che presto l’avrebbero ucciso per noi / Ave Maria […] Io ti ringrazio per questo silenzio che resta tra noi / Io benedico il coraggio di vivere sola con Lui / Ora capisco che fin da quei giorni pensavi a noi / Per ogni figlio dell’uomo che muore ti prego così».

È stato spontaneo – guardando la clip e ascoltando il testo di mons. Pierangelo Sequeri, teologo, musicologo e compositore milanese, già preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II – immaginare la propria morte e affidarsi a questa Madre con lo stesso abbandono della prima infanzia, di quando si vedeva nella propria madre il ‘riflesso di Dio’. Saranno i suoi occhi ad accoglierci in morte come in vita, quegli stessi occhi che per primi avevano salutato il suo Figlio, nel suo venire al mondo? Sarà lei a darci la mano e condurci davanti a Dio come quando Lui era bambino? Sarà lei in ginocchio, ferma e decisa, davanti a Lui, come Lui la vedeva quando pregava in vita? Avrà lei il desiderio di guardarci di nuovo in viso e riconoscerci quando il suo Figlio ci avrà perdonato dalle nostre colpe? Il suo riconoscimento ci dirà la fine e l’inizio di vita nuova, sempiterna, perenne, in pienezza, in Lui? La parola fine non ci lascia disorientati, perché Lo rivedremo vivo, risorto nella luce del sole; meglio, Egli è già qui, nei volti di quanti, usciti da questa Serata ne restano affascinati. Inutile cercarlo dentro alla fiction di una pellicola che è sempre e solo strumento: Egli è vivo nel loro stesso volto.

Altri flashback e interventi hanno tessuto il trama della Serata. Segnalo, in particolare, all’attenzione dei lettori il video «L’occhio di una madre…». È un filmato che racconta una storia bellissima, tra madre e figlio, vibrante e struggente, fino alle lacrime.

Di commovente bellezza sono stati gli interventi del trio femminile: Tonia Speranza, Marialuisa Mauro (il suo testo ha letto, con gioia, Franca Colacino) e Tina Quattromani. La prima, Tonia, ha fatto un salto all’indietro e ha rievocato la sua infanzia e l’adolescenza accanto alla sua tenerissima madre, condividendo alcuni intensi episodi che le tornano alla mente in un lampo. La seconda, Marialuisa, ha colto nella pellicola di Crialese tutta la pregnanza e significatività della propria storia di madre adottiva. «La madre del film – notò – la trovo moderna nel senso che lei capisce le necessità della figlia, la rispetta, la nutre, le dà coraggio. […] Il suo amore è grande come l’immensità. E questa immensità è piena di musica e di silenzio, di detto e di non detto, di promesse mantenute e infrante, di comprensione e rifiuto, di fantasia e realtà, di gioia e infelicità». La terza, Tina, ha fornito una preziosa e incisiva riflessione su come essere madri. «Essere madri – asserì – è un’esperienza così totalizzane da far perdere i limiti della propria individualità, un’esperienza che di colpo proietta in un mondo di amore sconfinato e incondizionato. […] Il senso di maternità è insito in ogni donna che per natura riesce ad essere empatica, contentiva, scrupolosa, amorevole, anche quando non è madre di una propria prole. La nascita di un figlio amplifica tali doti, rendendola ancora più raffinata sul piano della dedizione, della cura, dell’amore totale, incommensurabile, incondizionato, denso di gioie, ma anche di preoccupazioni, sacrifici e talvolta di sofferenze. Un amore però da saper dosare…».

L’ultima Serata cinematografica si è conclusa, implacabilmente, con il brano «Mother love» dei Queen, inciso da Freddie Mercury, in omaggio alle madri in Ucraina. Stanco e stremato dalla malattia, l’ex frontman dei Queen invoca la madre, l’unica a cui sente il bisogno di aggrapparsi e da cui desidera disperatamente ottenere amore e pace: «Mamma ti prego fammi tornare dentro / io non voglio fare onde /Ma tu mi puoi dare tutto l’amore che bramo / Io non posso sopportare che tu mi veda piangere / Desidero la pace prima di morire / Tutto quello che voglio è sapere che sei lì / Tu mi darai tutto il tuo dolce amore materno, ah-ah (amore materno) / Il mio corpo è stanco, ma non posso dormire / I miei sogni sono la sola compagnia che ho / Ho un tale sentimento mentre il sole cala / Sto tornando a casa dal mio dolce amore materno».

Oplà, la Serata è terminata, come al solito, con la foto di gruppo e il «cocktail».

Piotr Anzulewicz OFMConv

Foto: Antonella Vitale e Ghenadi Cimino


ngg_shortcode_0_placeholder




Donna che sogna un mondo migliore

È stata accolta con fervore, come esistenziale, vitale ed attuale, la 5ª Serata cinematografica, la 225ª di seguito, che si è svolta venerdì 9 dicembre 2022, alla vigilia del triduo di preghiera a s. Lucia († 304), protettrice degli occhi, dei ciechi, degli oculisti, di tutti coloro che soffrono di disturbi visivi: i non vedenti, i miopi, gli astigmatici… e chi è affetto da cataratta, patrona di Siracusa e compatrona di Venezia.

È stata giustamente Lucia Scarpetta, ‘particella’ dello Staff del Circolo, a presentare la trama del «Tutta la vita davanti» di Paolo Virzì e condurre il cinedibattito «Donna che sogna un mondo migliore per sé e per la bambina cui fa da baby-sitter›», tenendo conto del motto della 10ª edizione del CineCircolo: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›, per immagini», ma la Serata si è aperta esemplarmente con il videoclip contenente la canzone «Ho imparato a sognare» dei Negrita, riproposta dalla cantante romana Fiorella Mannaia, una delle protagoniste femminili della canzone popolare italiana, dalla voce leggera e soave. «I sogni sono la spinta propulsiva della nostra vita – ha confidato in una intervista. – Non è poi indispensabile che si realizzino, l’importante è averli perché spingono a fare meglio», a donare se stessi, ad aprirsi agli altri, «in un momento delicato come quello che stiamo vivendo, così pieno di paure» e chiusure.

Lucia ha quindi catalizzato l’attenzione dei presenti nel Salone «S. Elisabetta d’Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido sulla proiezione curata con diligenza dall’operatore audiovisivo Ghenadi Cimino. Il regista livornese, considerato da molti l’unico continuatore della commedia all’italiana dal sapore provinciale e un po’ agrodolce con una sana spruzzatina di ispirato neo-realismo, ha introdotto gli spettatori nella favola nera di Marta, ventiquattrenne siciliana trapiantata a Roma e neolaureata con il 110 e lode, abbraccio accademico e pubblicazione della tesi in filosofia teoretica. Umile, curiosa e un poco ingenua, Marta si vede chiudere in faccia le porte del mondo accademico ed editoriale, per ritrovarsi a essere “scelta” come «baby-sitter» dalla figlia della sbandata e fragile ragazza madre Sonia, interpretata con struggente intensità da Micaela Ramazzotti. È proprio questa “Marilyn di borgata” – scrive Chiara Renda nella sua recensione – a introdurla nel Call Center della Multiple, azienda specializzata nella vendita di un apparecchio di depurazione dell’acqua apparentemente miracoloso. Da qui inizia il viaggio di Marta in un mondo alieno, quello dei tanti giovani, carini e “precariamente occupati” italiani: in una periferia romana spaventosamente deserta e avveniristica, isolata dal resto del mondo come un reality, la Multiple si rivela pian piano al suo sguardo ingenuo come una sorta di mostro che fagocita i giovani lavoratori, illudendoli con premi e incoraggiamenti (sms motivazionali quotidiani della capo-reparto), «training» da villaggio vacanze (coreografie di gruppo per “iniziare bene la giornata”) per poi punirli con eliminazioni alla Grande fratello. Un mondo plasticamente sorridente e spaventato, in cui vittime e carnefici sono accomunati da una stessa ansia per il futuro che si tramuta in folle disperazione. Non c’è scampo per nessuno all’interno di queste logiche di sfruttamento, e a poco servirà il tentativo dell’onesto, ma evanescente sindacalista Giorgio Conforti di cambiare idealisticamente un mondo che difficilmente può essere cambiato.

Prendendo spunto dal libro della blogger sarda Michela Murgia, «Il mondo deve sapere», Virzì esplora con gli occhi di Marta l’inferno di questo precariato con tutta la vita davanti; e lo fa con lo spirito comico e amaro che da sempre lo contraddistingue. Accentuando stavolta i toni tragicomici e grotteschi da commedia nera, il regista toscano dà vita a un’opera corale, matura e agghiacciante, che rivisita (attualizzandola) la miglior tradizione della commedia amara alla Monicelli, costruendo – grazie anche all’apporto del fido sceneggiatore Francesco Bruni – personaggi complessi e sfaccettati, teneri e feroci, comici e tragici a un tempo, ma tutti disperatamente umani e autentici.

Con la stessa umiltà e onestà intellettuale di Marta, Virzì si muove tra le spaventose dinamiche del mondo moderno senza mai cadere nel facile giudizio, nel pietismo o – vista l’attualità del tema – nella trappola del film a tesi, mantenendo sempre in primo piano il suo amore per gli ultimi e una compassione per le sue creature disperate e perfide, figlie di una società malata, ma forse non ancora in fase terminale. E se Marta può ancora sognare un mondo migliore per sé e per la bambina cui fa da «baby-sitter», un mondo che balla spensierato ascoltando i Beach Boys e si affeziona a una voce telefonica, tutto attorno resta – conclude Renda – un ritratto allarmante dell’Italia di oggi, che Virzì svela sapientemente sotto una patina di sinistra comicità. Un’Italia dolce e amara quella di Tutta la vita davanti, che commuove e angoscia, lasciandoci con un groppo in gola, come quell’ovo sodo che non andava né su né giù.

La proiezione del film, con un ‘taglio’ della sua parte centrale che finisce per annoiare – ‘perpetrato’ abilmente da Ghenadi – ha innescato un vivace e a tratti infuocato dibattito, condotto nel modo fluido e ritmico da Lucia Scarpetta. Al microfono si alternavano Tonia Speranza, Maria Rainone, Ninetta Crea, Maria Rosa Cunia, Luigi Cimino… Ha fatto seguito la riflessione di Papa Francesco sul ruolo della donna nella Chiesa e sull’urgenza di trovare criteri e modalità nuove affinché «le donne non si sentano ospiti, ma pienamente partecipi nei vari ambiti della vita sociale ed ecclesiale». Il denso dibattito si è concluso con la lettura di un brano della «Lettera alle donne» di Giovanni Paolo II, fatta con un’intensa commozione da Marialuisa Mauro: «[…] Grazie a te, donna-lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, per l’indispensabile contributo che dai all’elaborazione di una cultura capace di coniugare ragione e sentimento, ad una concezione della vita sempre aperta al senso del “mistero”, alla edificazione di strutture economiche e politiche più ricche di umanità» (n. 2).

Il presidente Luigi ha annuncio quindi il prossimo evento che si terrà venerdì 16 dicembre (6ª Serata conviviale, focalizzata su «Caterina de’ Ricci († 1590), Veronica Giuliani († 1727) e le altre donne, bambinaie celesti» [226]), e ha invitato alla foto di gruppo e al «cocktail», reso particolarmente ricco e appetibile (castagnaccio di Gabriella, insalata russa e crostata di Tiziana, arancini di Loredana, Ferrero Rocher e Pocket Coffee di Antonella, mandarini di Maria Rainone). È stato impossibile a non pensare, anche questa volta, alle donne e ai bambini della martoriata Ucraina. Il videoclip «Рождественские попурри» con i canti natalizi in quattro lingue: russo, ucraino, inglese e spagnolo, ha rasserenato tutti, ha allargato il perimetro della fraternità e ha spronato a sognare un mondo migliore.

Piotr Anzulewicz OFMConv


ngg_shortcode_1_placeholder




«Dottorar le donne», senza paura

Una Serata sonora, interattiva, conviviale, con le persone che si stimano e si ammirano, quella che si è svolta venerdì 2 dicembre 2022 nel Salone «S. Elisabetta d’Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido e si è focalizzata sul tema: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia († 1684), la prima donna a potersi fregiare del titolo di Doctor», la 5ª della 10ª edizione del WikiCircolo dal «file rouge»: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›».

Sonora, con la strepitosa performance del soprano Maria Grazia Cucinotta che ha cantato tre famosi brani: 1. «Ave Maria» di Charles François Gounod († 1893), all’inizio; 2. «Agnus Dei» di Georges Bizet († 1875), a metà; 3. «Astro del ciel» di Franz Xavier Gruber († 1863), a conclusione, rendendo bello il nostro mondo, più melodico, armonioso e soave e meno monocorde, uniforme, soliloquiale e privo di ritmo.

Interattiva, con il sostanzioso panel, che grazie alle sue peculiarità ha infervorato i presenti. Le sue sequenze digitali, virtuali, da remoto, e reali, fisici, in presenza, si snodavano così:

3.1. Monologo di Lucia Schierano: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia» [I] (3:06′); 3.2. Dr. Maria Luisa Mauro: «Vicenda accademica di Elena Lucrezia» (15:00′); 3.3. Monologo di Lucia Schierano: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia» [II] (3:59′); 3.4. Intervista a Alessandra Schiavon e a Tatiana Corretto, funzionarie archiviste nell’Archivio di Stato di Venezia (5:04′); 3.5. Monologo di Lucia Schierano: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia» [III] (1:42′); 3.6. Dr. Piotr Anzulewicz OFMConv: «Dottorar le donne, senza stereotipi di genere e paura» (10:00′); 3.7. Condivisione (10:00′); 3.8. M° Maria Grazia Cucinotta: «Agnus Dei» di Georges Bizet († 1875), compositore e pianista francese; 3.9. Lettura del «Messaggio alle donne» di Paolo VI

Conviviale, con la commovente consegna di un ‘segno’ e di un attestato di ringraziamento alla M° Maria Grazia Cucinotta, da parte del M° Luigi Cimino, presidente del Circolo, e della sottosegretaria Lucia Scarpetta, e con il piacevole momento di fraternità, presso il buffet, amorevolmente preparato da Gabriela, Pina, Loredana, Lucia, Luigi e Iolanda.

Nell’insieme, una Serata eccellente per l’orecchio, l’occhio, il palato.., con un finale omaggio – come nelle Serate precedenti – alle donne ucraine: il video, proiettato da Ghenadi Cimino, operatore audiovisivo e sonoro, con la canzone patriottica Ой, у лузі червона калина (Oj u luzi červona kalyna; lett. “Oh, viburno rosso nel prato”), scritta dal compositore Stepan Čarnec’kyj nel 1914, virale attualmente in Ucraina, ma vietata severamente nei territori occupati dalla Russia, pena multe, prigione o esilio.

Emozionante Serata ha disegnato, in poco più di un’ora e mezzo, il ritratto della prima donna laureata al mondo, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, intellettuale veneziana e oblata benedettina, oltre al composito mondo culturale, sociale e politico della seconda metà del sec. XVII, tra Venezia e Padova. Elena Lucrezia, affamata di cultura vera, intraprese un cammino nuovo, solitario, quasi scandaloso eppure esaltante e bellissimo, quando alle donne era consentito soltanto il matrimonio o il velo. Si consacrò allo studio e alla passione intellettuale. Appoggiata dal padre Giovanni Battista, facoltoso patrizio e colto procuratore della Repubblica di Venezia, nascose dietro la vocazione alla severità un temperamento orgoglioso, ribelle ed appassionato. Sfidò i costumi dell’epoca e la mentalità contraria all’istruzione delle donne e, nonostante l’opposizione del card. Gregorio Barbarigo († 1697), vescovo di Padova, riuscì a sostenere e superare l’esame pubblico davanti a una moltitudine di persone. A lei i notabili del Sacro Collegio dell’Università di Padova, il 25 giugno 1678, attribuirono il titolo di «magistra et doctrix in philosophia» e le consegnarono le insegne del dottorato. Non però – come avrebbe voluto – in teologia: quando, per volere del padre di Elena, venne fatta richiesta di riconoscerle la laurea in teologia, la reazione del card Barbarigo fu senza appello: «È uno sproposito dottorar una donna, ci renderebbe ridicoli a tutto il mondo». A lui, come a tanti altri come lui, la storia non ha dato né darà ragione, con buona pace della misoginia, ecclesiastica e non solo, ancora imperante.

Elena Lucrezia, con la sua laurea, è diventata emblema della ricerca di uguaglianza e del riscatto femminile. Questo per teologhe cristiane ha significato recuperare gli infiniti reperti di protagonismo femminile presenti anche nella Bibbia e portarli alla luce nella loro autenticità, cioè liberarli dalle scorie secolari di un’interpretazione sessista o, per dirlo con la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, dal pericolo di un’unica storia, quella maschile. Un lavoro arduo, scandito da domande che continuano a martellare: «Perché il filo memoriale delle donne bibliche che abbiamo ricostruito – si chiede la teologa Marinella Perroni su «Re-blog. Il post della rivista Il Regno» – non ce la fa a diventare patrimonio comune delle nostre Chiese, nelle quali domina ancora un’interpretazione dei testi biblici del tutto funzionale al mantenimento di un sistema fondato sulla gerarchia dei sessi?». Perché, evocando il card. Barbarigo, ci sono ancora tanti “santi” uomini che considerano uno sproposito «dottorar le donne»? Come è possibile che, ancora oggi, nel recente documento della Conferenza episcopale italiana, consegnato il 12 luglio scorso alle Chiese locali per orientare il secondo anno del cammino sinodale, dal titolo «I cantieri di Betania», si ratificano e si veicolano dolorosi stereotipi che, oltre tutto, alterano la comprensione del racconto evangelico della visita di Gesù alle sorelle di Betania? Perché nel paragrafo «Il cantiere dell’ospitalità e della casa» (p. 9), quando si delineano i caratteri della Chiesa domestica, si afferma che in essa la comunità vive «una maternità accogliente e una paternità che orienta», senza rendersi conto che questa considerazione apre in realtà uno squarcio sugli stereotipi di genere che pesano come un macigno sulle nostre Chiese?

Ha ragione Anita Prati quando ricorda nel suo bellissimo articolo dal titolo Lo sproposito di dottorar le donne, pubblicato il 27 luglio scorso su SettimanaNews, il portale dei Dehoniani, che «l’arco di tempo, che ha visto le donne impegnate a sanare il divario secolare, anzi millenario, in termini di disparità di educazione, di libertà e di possibilità di scelta, rispetto agli uomini, è ancora molto breve», e cita le parole con cui, nel 1622, Marie de Gournay stigmatizza le conseguenze di una cultura fondata sulla gerarchia dei sessi: «Beato te, lettore, se non appartieni al sesso cui tutti i beni sono vietati, con la privazione della libertà, nell’intento di costituirgli come sola felicità, come virtù sovrane e uniche: l’essere ignorante, fare la sciocca e servire».

La strada da percorrere è quindi lunga e forse per ora c’è solo da sperare che un numero crescente di padri, e di madri, sollecitino e orientino le figlie allo studio, senza paura di «dottorar le donne». È una speranza che viene da lontano.

Piotr Anzulewicz OFMConv


ngg_shortcode_2_placeholder