«Nabat»: la forza d’animo di una donna sola

Un’altra Serata cinematografica gradita, innovativa, avanguardistica, da infilare nel Pantheon delle avanguardie, arricchendolo con le storie di donne intrepide, decise, coraggiose, storie che possono aiutare altre donne ad aprire gli occhi anche sulle insidie, sulle trappole, sui pericoli nascosti dietro i falsi modelli di successo, di autoaffermazione, di liberazione.

È stato decisamente il giorno giusto, venerdì 25 novembre 2022, per chinarsi sull’«ostinazione delle donne a non cedere alla barbarie, sulla loro resilienza, sulla loro capacità di cura» e proiettare il film «Nabat» di Elchin Musaoglu, selezionato dallo Staff del Circolo Culturale San Francesco per la 10ª edizione del CineCircolo dal leitmotiv: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›, per immagini», ideata dentro la fase narrativa del cammino sinodale della Chiesa. In quel giorno ricorreva la 23ª Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne, indetta dall’ONU e messa in risalto in Italia dal lancio della campagna della Polizia di Stato «Questo non è amore», l’appello a «mettere in salvo» le donne, cioè a garantire loro sicurezza da soprusi, maltrattamenti e abusi, minacce e recidive, frequenti anche dopo un’eventuale pena, e ad accompagnarle in ogni fase. Papa Francesco, parlando ai componenti della Direzione Centrale Anticrimine, ricevuti all’indomani della Giornata in Vaticano, nella Sala Clementina, ha indicato quelli che sono i punti cardine per estirpare la violenza contro le donne, fenomeno permanente, diffuso, trasversale, aggravato dalla pandemia e alimentato dai media: prevenzione e protezione, educazione e accompagnamento. «Per vincere questa battaglia – ha rimarcato – non basta un corpo specializzato (…) e non bastano l’opera di contrasto e le necessarie azioni repressive (…). Bisogna unirsi, collaborare, fare rete: e non solo una rete difensiva, ma soprattutto una rete preventiva!». È prezioso avere anche «una mirata preparazione psicologica e spirituale – ha detto il Papa – perché solo a livello profondo si può trovare e custodire una serenità e una calma che permettono di trasmettere fiducia a chi è preda di violenze brutali». Tante donne cristiane, venerate come martiri, ne sono esempio. Il Papa ne ha citato alcune, da s. Lucia di Siracusa († 304) e s. Maria Goretti († 1902) alla b. Maria Laura Mainetti († 2000), la religiosa assassinata a Chiavenna (SO) da tre ragazze durante un rito satanico. Ci sono tante «sante della porta accanto» che con la loro vita «testimoniano che non bisogna rassegnarsi, che l’amore, la vicinanza, la solidarietà delle sorelle e dei fratelli può salvare dalla schiavitù». La loro testimonianza va proposta a ragazze e ragazzi di oggi: «Nelle scuole, nei gruppi sportivi, negli Oratori, nelle associazioni – ha esortato il Papa – presentiamo storie vere di liberazione e di guarigione, storie di donne che sono uscite dal tunnel della violenza e possono aiutare altre donne.

È una benedizione donne gioiosamente presenti nello Staff del Circolo e nel Salone di S. Elisabetta in cui si tengono le Serate: Iolanda De Luca, Maria Rainone, Rina Gullà, Gabriela Sestito, Tonia Speranza, Marialuisa Mauro, Elisabetta Guerrisi, Patrizia Corapi, Loredana Olivadoti, Lucia Scarpetta, Antonella Vitale, Federica Astarita, Asia Brogeri…, le donne che possono meglio capire altre donne, ascoltarle e sostenerle, e ‹fare bello il mondo›. Sono centrali nel Circolo e indispensabili in un mondo che invece troppo spesso le mette agli angoli. «Devono essere rispettate – sottolineò con forza Papa Francesco il 15 settembre scorso, nel discorso di chiusura del 7° Congresso delle Religioni Mondiali e Tradizionali, riprendendo uno dei punti contenuti nella Dichiarazione finale dell’assise a Nur Sultan, in Kazakhstan – riconosciute e coinvolte. (…) A loro vanno affidati ruoli di responsabilità maggiore». Ci sono luoghi dove questo è ancora sogno. Le costanti notizie di cronaca, che si susseguono sui giornali e nelle trasmissioni televisive, radiofoniche e pubblicitarie, ci portano a pensare che siamo ancora lontani dal considerare la donna per ciò che è e racchiude in sé: una bellezza profonda, da scoprire; una capacità infinita di accoglienza, di intuizione e di donazione, da valorizzare; una genialità stupefacente nel trasmettere l’armonia, la pace e l’amore, da valorizzare. La donna non è un oggetto da “usare e gettare” o una merce da comperare e consumare. Sia quindi “benedetta”.

La 4ª Serata cinematografica iniziò allora con il videoclip Che sia benedetta, mandato in onda dall’operatore Ghenadi Cimino, in omaggio a colei “che dona l’amore che ha dentro” e ci invita a tenerci stretta la vita, per quanto ci sembri assurda e complessa, incoerente e testarda. A cantare il suo bellissimo brano, Erika Mineo, in arte Amara, dalla voce graffiante, artista di strada toscana e autrice di splendide canzoni portate al successo da altre voci.

Dopo i saluti istituzionali e l’introduzione al programma della Serata, Lucia Scarpetta relazionò la trauma del film «Nabat», dalla splendida fotografia e dall’eccellente interpretazione della convincente protagonista, di straordinaria attualità proprio oggi, in pieno periodo della guerra russo-ucraina. Una accorata riflessione sul destino dei Paesi devastati dalla guerra. Infatti, il film, presentato nella sezione Orizzonti della 71ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2014, viene dall’ex-Repubblica sovietica, dall’Azerbaidžan, il Paese più grande del Caucaso. Nabat è il titolo, ma anche il nome della protagonista, una donna non più giovane che vive nei pressi di un villaggio di montagna cui il conflitto armato ha strappato l’amato figlio. Le truppe nemiche stanno per arrivare nella sua remota regione e pochi abitanti del villaggio fuggono a causa dei bombardamenti, ma lei rifiuta caparbiamente di lasciare la casa e il marito Iskender, un ex lavoratore forestale vecchio e moribondo, preferendo andare incontro a un destino segnato: solitudine, isolamento, privazioni. Nabat lotta e resiste con coraggio e dignità alla fatica e alla disperazione, ma le sue forze si spengono a poco a poco come i lumi a petrolio che lei si ostina a tenere accesi nelle case ormai disabitate affinché le notti sui monti siano meno buie e un barlume di vita possa continuare a illuminare il vuoto. Madre coraggio certamente, Nabat incarna ben altre immagini. È la madre per antonomasia. È la patria che si prende cura dei propri figli. «Last but non least», la conservatrice di una memoria che altrimenti andrebbe perduta. Figura esemplare, dunque, cui presta il proprio volto l’intensa attrice iraniana Fatemeh Motamed-Arya chiamata sul set dopo che il regista Elchin Musaoglu aveva fallito ogni ricerca in patria. Il ruolo, quasi totalmente muto, poggia sulla sua straordinaria intensità mimica e fisica: corpo-madre piegato dal dolore, dalla fatica del vivere e dal peso dei ricordi. Pochi i dialoghi e i suoni rarefatti: il respiro affannoso della protagonista e l’eco dei suoi passi lungo i sentieri, l’ululato lamentoso di un lupo solitario che si aggira nei dintorni della casa, il rimbombo lontano delle cannonate. La guerra – suggerisce il regista – non conosce confini. Ogni vittima è vittima del mondo. Una tesi non nuova, ma le immagini, di cui si serve per enunciarla, raccomandano coerenza stilistica, respiro narrativo, rigore formale. Finale quietamente malinconico e dolcemente visionario.

Film rigoroso e al tempo stesso doloroso, in cui la figura femminile assurge a simbolo della forza d’animo che non si arrende di fronte alle avversità del destino e dell’abbandono, alla crudeltà della guerra e alle morse della solitudine. Sentirsi soli o sentirsi amati sulla terra? La visione della pellicola rese cristallina la risposta: «Da soli siamo dei ‘freaks’. Insieme siamo qualcosa di meraviglioso, cercando di essere degni di essere amati l’uno dall’altro, complementari, solidali». Il desiderio di essere insieme si rendeva ancora più palese durante il cinedibattito che si snodava affabilmente in queste sequenze:

3.1. Interventi: «Nabat» – una potente parabola sulla resilienza femminile, sulla capacità di cura delle donne, e sull’ostinazione a non cedere alla barbarie (10:00′); 3.2. Notturno dall’Italia – Donne della Resistenza di Giuni Russo (3:36′); 3.3. P. Anzulewicz OFMConv: «Perché la non accettazione di vecchiaia e malattia porta la società a non accettare défaillance in una donna?» (5:00′); 3.4. Lettura di alcuni passaggi della «Lettera alle donne» di Giovanni Paolo II (nn.10-12).

Seguirono quindi le comunicazioni del presidente Luigi Cimino, relative al Circolo, l’annuncio del prossimo evento [venerdì 2 dicembre: 5ª Serata conviviale, focalizzata sul tema: «Elena Lucrezia Cornaro Piscopia († 1684), la prima donna a potersi fregiare del titolo di Doctor»], la foto di gruppo, l’ascolto della canzone «Le poche cose che contano» di Amara e Simone Cristicchi, trasmessa da Ghenadi nel videoclip, e il «cocktail», preparato premurosamente da Iolanda e Loredana e servito graziosamente da altre donne, «lasciando larga e benefica impronta di sé» nel Salone di S. Elisabetta d’Ungheria presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido. Le prossime Serate non mancheranno, certo, di registrare nuove e mirabili manifestazioni del «genio femminile».

Piotr Anzulewicz OFMConv


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Sandra Sabattini, Chiara Luce Badano e le altre che ‹fanno bello il mondo›

Non c’è che dire: le Serate della 10ª edizione del Cine– e WikiCircolo, dal filo rosso: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›», sono «travolgenti», come scrive in un post Patrizia. «Mi piace la loro fluidità, la scioltezza, la leggerezza. Pare che dal pulpito e dallo schermo, che mettono in moto i profili di donne stupende, parta una corda invisibile che attira emotivamente e spiritualmente gli sguardi dei presenti nel Salone “S. Elisabetta d’Ungheria” presso la chiesa “Sacro Cuore” di Catanzaro Lido e genera il desiderio di essere simili a loro», nel loro essere per gli altri. «Ieri, venerdì 18 novembre, sono dovuta scappare – confida –, ma ho assistito abbastanza per capire che anche questa Serata dal titolo: «Sandra Sabattini († 1984), l’artista della carità, e le altre donne come lei», è stata una Serata trainante. Grazie di cuore per queste Serate di elevato valore culturale, spirituale e morale. Dio vi benedica».

In realtà le Serate sono ancora lontane dal profilo tracciato da Patrizia, anche se vengono preparate con la massima genialità e cura dallo Staff. Grazie al sito web del Circolo e la pagina social, vengono intercettate e ‘frequentate’ dentro ai telefoni cellulari di altre città, europee ed extraeuropee, ma all’interno dei confini della propria parrocchia, guarda caso, restano paradossalmente ‘invisibili’, a causa dell’atteggiamento di quanti dovrebbero «avere a cuore – come scrive l’Arcivescovo sulla pergamena con la benedizione – le sorti della collettività parrocchiale e civile». Il Circolo comunque prosegue la sua avventura con vivo entusiasmo, veicolando e rivitalizzando i valori evangelici, francescani e umanistici con coloro che colgono in essi il proprio codice identitario. 

Ad aprire la 4ª Serata conviviale con «aperitivo», la 222ª di seguito, è stata la canzone «A modo tuo», dedicata a tutte le donne e interpretata da Elisa Toffoli, cantautrice, musicista, attrice teatrale e scrittrice triestina. Come dice il brano, scritto da Luciano Ligabue, cantautore e scrittore emiliano, per sua figlia Linda: «Sarà difficile diventar grande», ma ne vale la pena scoprire «quella che si sarà»»: sicura che alle spalle si avrà l’amore genitoriale.

Dopo il saluto iniziale e l’introduzione al tema della Serata, la regia di Ghenadi Cimino ha proiettato le immagini che accompagnano il trafiletto Donne che lottano per la loro libertà e dignità, pubblicato in mattinata sul sito web del Circolo. Il trafiletto racconta, in forma concisa, la Serata precedente: la 3ª Serata cinematografica, con la proiezione del film «Il Sabba».

Il panel si è avviato con il video «La santa fidanzata, la storia di Sandra Sabattini», la storia di una ragazza semplice, dolce, piena di entusiasmo per la vita donata ai poveri, ai disabili e ai tossicodipendenti, dichiarata beata il 24 ottobre 2021 a Rimini, un vero modello per i giovani d’oggi. Amava dipingere, suonava il pianoforte e correva come velocista in una squadra di atletica leggera.

A 12 anni incontrò don Oreste Benzi († 2007), educatore e fondatore della Comunità «Papa Giovanni XXIII». Partecipò ad una vacanza di condivisione con gli handicappati – come si diceva allora – presso la Casa Madonna delle Vette ad Alba di Canazei, sulle Dolomiti. La proposta di don Benzi era di fare «un incontro simpatico con Gesù». Un’esperienza intensa, immersa nella natura e faticosa per l’accudimento delle persone disabili. Sandra rimase folgorata. Tornata a casa disse alla mamma: «Ci siamo spezzati le ossa, ma quella è gente che non abbandonerò più». Questo incontro cambiò per sempre la sua vita: iniziò a seguire i poveri a domicilio, scendeva in piazza per i diritti delle persone disabili, dedicava il suo tempo libero ai ragazzi in recupero dalla tossicodipendenza. All’inizio degli anni ’80 il problema di droga emergeva ovunque nella sua drammaticità. L’associazione di don Benzi aveva da poco aperto comunità terapeutiche e Sandra, a soli vent’anni, riusciva a convincere tanti giovani ad abbandonare la via della droga per iniziare un percorso di rinascita. Studiosa di medicina coltivava il sogno di partire come missionaria in Africa. La sua vita non le apparteneva. Una volta incontrato Cristo, non aveva più potuto fare a meno di vivere per lui, di puntare su di lui, di amarlo, nella Chiesa. Il fidanzamento con Guido Rossi, conosciuto a 18 anni, anch’egli membro della Comunità «Papa Giovanni XXIII», viveva come un orizzonte più ampio per aprirsi allo spazio d’amore sconfinato di Dio. A soli 23 anni, il 2 maggio 1984, fu investita da un’auto. Per sua intercessione una persona ebbe la guarigione da un tumore. Da morta continua a fare il bene che aveva iniziato in vita, nel servizio per i più fragili. A confermarlo anche la canzone «Tutto è in Dio» di Manlio Santini e Daniele Serafini, che risuonò nel Salone, aprendo lo spazio a interventi del sottoscritto, di Lucia Scarpetta e di Maria Rainone.

Le beate, come Sandra e tante, tantissime altre «della porta acanto» (cfr. Esortazione apostolica «Gaudete et exsultate», nn. 6-9), sono sempre vive ed attuali. Mantengono con noi legami d’amore e di comunione, ci circondano, ci guidano, ci proteggono. Il loro fascino innesca nuovi dinamismi spirituali nella Chiesa e nella società. La forza della loro testimonianza sostiene e trasforma famiglie e comunità. «Questo dovrebbe entusiasmare e incoraggiare ciascuno a dare tutto sé stesso, per crescere verso quel progetto unico e irripetibile che Dio ha voluto per lui o per lei da tutta l’eternità: “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato” (Ger 1,5)» (Ivi, 13).

La canzone «Luce» di Gen Rosso ‘introdusse’ nel Salone una di esse: Chiara Luce Badano († 1984), giovane e bella focolarina, soprannominata appunto «Luce» per il suo sorriso. Ogni sua giornata fu una gemma da innalzare a Dio, dando un senso eterno ad ogni gesto di amore per tutti, credenti e “laici”. Vivace, sportiva, simpatica e trainante, si sentiva amata da Dio e lo voleva portare a quanti incontrava sulla sua strada. Nacque a Sassello, in Provincia di Savona il 29 ottobre 1971. In terza elementare conobbe il Movimento dei Focolari, fondato da Chiara Lubich († 2008), ed entrò così fra le gen (generazione nuova). La gioia di vivere, la felicità di godere dell’amicizia, l’entusiasmo per le piccole cose, la contemplazione del creato erano il nutrimento delle sue giornate. A 17 anni iniziò il pellegrinaggio negli ospedali di Torino, affetta da un tumore osseo di quarto grado. Prima di entrare nella sala operatoria disse alla mamma: «Se dovessi morire, celebrate una bella Messa e di’ ai gen che cantino forte». Si sottopose alla chemioterapia e alle sedute di radioterapia, affrontando tutto come identificazione con i dolori di Cristo. Conosceva la gravità del male che l’aveva colpita, eppure, accanto a lei, parenti e amici respiravano aria di festa. Chiara chiacchierava, giocava, scherzava. La vita continuava a fuoriuscire da lei e gli altri si abbeveravano a questa straordinaria fonte. Si consumava e si offriva per amore di Gesù ai dolori della Chiesa, al Movimento dei Focolari e ai giovani. Predispose tutto per il suo funerale, che chiamava la sua Messa o le sue nozze con Gesù: dovrà essere lavata con l’acqua, segno di purificazione, e pettinata in modo giovanile; chiese alla mamma di non piangere perché «quando in cielo arriva una ragazza di 18 anni, si fa festa!». Il suo vestito da sposa lo voleva bianco, lungo, semplice, con una fascia rosa in vita. La sua amica del cuore, Chicca, lo provò di fronte a lei: le piacque molto, era semplice come lo desiderava. Morì il 7 ottobre 1990, festa della Beata Vergine Maria del Rosario, pronunciando le parole intrise di fede e di amore: «Mamma, sii felice, perché io lo sono. Ciao!», a coronamento di una sofferenza vissuta nella luce radiosa e consolante della fede che stupì gli stessi medici e le persone che le stavano intorno. La luce del suo incantevole sguardo non si spense perché i suoi occhi sono stati donati a due ragazzi. Il 25 settembre 2010, al Santuario del Divino Amore di Roma, fu proclamata beata.

«Corri, corri, corri, brilla accanto a me, nella stessa luce. […] Corri, corri, dimmi che non c’è nulla da temere. […] Corri, corri, brilla, brilla che la tua luce ora è in me». Riecheggiano ancora nel Salone queste parole della canzone di Gen Rosso, potenziate dalle affettuose confidenze di Maria Teresa e Ruggero, genitori di Chiara Luce, e visualizzate da Ghenadi sullo schermo, con il filmato «Vita della b. Chiara Luce Badano». Loredana Olivadoti e Tonia Speranza le resero ancora più espressive, condividendo le loro ricerche sulla Beata savonese. Il suo «Saluto», dalla stanza della sua casa, spalancò la Serata a ragazze e donne che non possono «fare bello il mondo», perché sono maltrattate, stuprate e discriminate. In molti Paesi, nonostante le garanzie costituzionali di parità di genere, esse godono solo del 75% dei diritti legali degli uomini. Di più, in molti casi non hanno neppure il potere di contestare questa disparità, a causa dei bassi livelli di partecipazione a processi decisionali. Nessun Paese al mondo può affermare oggi di aver raggiunto l’uguaglianza di genere nella sua totalità. Se così fosse, sottolinea il Rapporto «State of World Population 2021», pubblicato in aprile dall’Agenzia delle Nazioni Unite, non ci sarebbe violenza contro ragazze e donne, nessun divario retributivo, di leadership, di lavoro, nessuna mancanza di servizi. Spesso i modelli radicati nel modo in cui funzionano le società, come il patriarcato o i matrimoni forzati e infantili, influiscono sull’autonomia corporea femminile. In alcune parti del mondo, ad esempio, la pratica del “bride price” (prezzo della sposa), con cui un uomo offre denaro, proprietà o altri beni per “comprare” il matrimonio, è un meccanismo economico di fondamentale importanza per lo scambio di potere e di ricchezza. La pratica coniugale, nota con il nome di “eredità della vedova”, prevede invece che una donna intrattenga rapporti sessuali con l’uomo che la “eredita” indipendentemente dal numero di partner sessuali che potrebbe aver avuto in passato. C’è tanto da fare per aumentare la consapevolezza su come tutte e tutti – donne, uomini, ragazze e ragazzi – possano trarre vantaggio da società contraddistinte da parità di genere. Il programma MenCare in Georgia, sostenuto dal Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, è ritenuto un modello che altri Paesi potrebbero adattare a livello locale. Il programma promuove il coinvolgimento degli uomini come padri e tutori non violenti al fine di raggiungere un benessere familiare, incoraggiandoli a sostenere l’uguaglianza di genere. In Nepal, società altamente patriarcale e con forte disparità di genere, sono stati introdotti meccanismi proattivi per contrastare questi modelli e garantire l’uguaglianza, istituendo tra l’altro una Commissione Nazionale delle Donne, incaricata di indagare regolarmente su questioni relative alla violenza sulle donne e sulle leggi inerenti le discriminazioni di genere.

«Corri [allora], corri, brilla, brilla, Luce Chiara e bella. Corri, corri, dimmi che non c’è nulla da temere».

A conclusione del panel, una preghiera bellissima, pubblicata sul sito «San Francesco» e recitata con solennità nel tono da Tonia Speranza e Iolanda De Luca, la preghiera delle donne per le donne: «Grazie, buon Dio, per l’amore che hai per noi, perché ci hai creati a tua immagine e somiglianza nella condizione di uomo e donna, affinché, riconoscendo la nostra diversità, cerchiamo di completarci a vicenda: l’uomo a sostegno delle donne e le donne a sostegno dell’uomo…».

Seguirono quindi le comunicazioni del presidente Luigi Cimino [Accoglienza dell’invito di p. Rocco Predoti OFMConv, superiore del convento «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido e docente di teologia catechetica e di teoria e passi della comunicazione presso l’Istituto Teologico Calabro «S. Pio X», alla presentazione del suo libro «Identità dell’uomo digitale. Antropologia del linguaggio digitale e implicazioni catechetiche» (Cittadella Editrice, 2022), che si terrà il 16 novembre a Catanzaro, presso la Biblioteca comunale «Filippo De Nobili», situata all’interno di Villa Margherita; auguri a Elisabetta Guerrisi, affezionata fan e creativa sostenitrice del Circolo insieme alle sue sorelle Margherita e Carola, affinché la sua celeste protettrice, Elisabetta d’Ungheria, giovane, sposa, madre e regina, primizia dei chiamati a vivere di Dio nel mondo, continui ad essere al suo fianco, con il grembiule di magnifiche e fragranti rose…] e l’annuncio del prossimo evento [Venerdì 25 novembre: 4a Serata cinematografica (223), con la proiezione del film «Nabat» di Elchin Musaoglu e il cinedibattito sul tema: «Resilienza, capacità di cura, ostinazione a non cedere alla barbarie»].

Infine, per non dimenticare le donne in Ucraina che soffrono e lottano per la pace, per la libertà, per il rispetto della dignità di tutte le donne, un tenero e struggente canto della piccola Виктория Желудкова: «Отмените войну». La Serata, intensa e cordiale, si è sciolta attorno ad un tavolo ricco di arancini, patate e peperoni, preparati da Loredana, e i pasticcini portati dalle sorelle Guerrisi, serviti graziosamente anche da Asia Brogneri), con il saldo proposito di rivederci mercoledì, nella Biblioteca comunale «Filippo De Nobili», e venerdì, nel Salone «S. Elisabetta d’Ungheria».

Piotr Anzulewicz OFMConv


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Donne che lottano per la loro libertà e dignità

Una Serata magnetica, con un tema di forte attualità e rilevanza: «Donne che non sono disposte a rinunciare alla loro libertà e dignità, capaci di smascherare l’ignoranza, la superstizione e l’ottusità…».

Queste donne si incrociano di continuo, a casa, sul lavoro, per le strade… e venerdì 11 novembre scorso nel Salone di S. Elisabetta d’Ungheria, presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido, e nel film «Il Sabba» di Pablo Agüero, alla 3ª Serata cinematografica della 10ª edizione del CineCircolo dal filo conduttore: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›, per immagini», inserita nel solco della fase narrativa del cammino sinodale, ispirata ai grandi testi dell’autorità educativa della Chiesa, promossa dal Circolo ed aperta gratuitamente a tutti: credenti e «laici», vicini e lontani – la 221ª di seguito.

La aprì il brano «Stefania» della Kalush Orchestra, in omaggio alle donne ucraine: dalle politiche, parlamentari e diplomatiche alle reginette di bellezza, artiste e casalinghe, icone ed eroine del sanguinoso conflitto russo-ucraino, che impugnano armi e combattono nelle forze di difesa territoriali, che afferrano microfoni e ad alta voce difendono la loro e la nostra dignità e libertà, e le donne ‘comuni’, che, sentendo la loro casa tremare, con la forza dell’amore scappano nei rifugi insieme ai loro bambini, che, assumendosi la responsabilità dei loro figli, diventano profughe e rifugiate in altri Paesi.

Seguirono un veloce sguardo sulla Serata precedente, resa immortale nelle immagini associate all’articolo «Le sante e le indemoniate», la sinossi de «Il Sabba» con il cast e il regista, presentata agilmente da Lucia Scarpetta, senza svelare il finale, e la proiezione della pellicola ‘scovata’ abilmente da Ghenadi Cimino.

Il film trasportò i presenti nel Salone, con incredibile maestria, nei primi anni del 1600, nella regione basca, e seguì la storia – altamente drammatica, ma al tempo stesso assolutamente emozionante – di un gruppo di giovani donne accusate ingiustamente di stregoneria. La ventenne Ana viene arrestata per la sola colpa di aver preso parte ad un Sabba (in basco Akelarre). Insieme a lei, altre donne, sorelle ed amiche, subiscono la stessa sorte: vengono costrette a confessare, con torture atroci e disumane, quello che sanno sull’Akelarre, il rito magico durante il quale si materializzerebbe il diavolo, pronto ad accoppiarsi con loro. Accusata, insieme alle sventurate compagne, di stregoneria dal giudice Pierre de Rosteguy di Lancre, Ana verrà quindi coinvolta in un estenuante processo, nel quale verrà messa alla gogna finché l’odio evocato da una società ipocrita e oscurantista verrà inevitabilmente e tragicamente soddisfatto.

Nel film ci vengono mostrati due mondi diversi: quello degli uomini, fatto di assurde credenze e superstizioni e di un’intrinseca paura per tutto ciò che sfugge al loro controllo, e quello delle donne, che in questa regione della Spagna mantengono un livello di libertà, espressa principalmente in un fortissimo legame con la natura e con i suoi segreti, che in altri luoghi, a quel tempo, era probabilmente impossibile. Donne che non sono disposte a rinunciare, oltre che alla loro libertà, alla dignità, e che sono capaci di smascherare l’ottusità dei loro aguzzini, manipolandola in certi casi a loro vantaggio. Il profondo contrasto tra queste due dimensioni viene espresso anche dall’uso della camera, movimenti bruschi e veloci quando viene raccontato il mondo femminile di Ana e le altre, decisamente più statici nelle poche scene completamente al maschile. La libertà di queste donne è opposta alle costrizioni che questi uomini si autoimpongono ed impongono agli altri. A colpire de «Il Sabba» sono anche le interpretazioni delle giovani protagoniste, per la maggior parte alla prima esperienza. Tra di loro spicca senza dubbio Amaia Aberasturi, magnetica negli sguardi e nel mondo di parlare, capace di incarnare il potere mistico e sensuale di cui viene accusata (e da cui i suoi aguzzini sono attratti). Le altre, comunque, spiccano per la loro spontaneità e freschezza, risultando altrettanto affascinanti.

«Il Sabba» è uno splendido grido di libertà e dignità. Agüero, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Katell Guillou, con il suo film scelse di raccontare la donna di allora come quella di oggi, vittima di pregiudizi e dell’ignoranza, che tuttavia da vittima innocente può diventare l’artefice del suo destino, non perdendo la sua dignità nemmeno nei momenti peggiori.

Infatti, il cinedibattito, innescato da «Il Sabba», mise in luce la dignità della donna. Al microfono si alternavano allora donne diverse, con piglio mistico o con la concretezza di una lingua forte, ragionando sull’eredità degli avi, superando le loro madri e non nascondendosi dietro agli stereotipi: Tonia Speranza, Gabriela Sestito, Maria Rainone…, anche con alcune frasi incendiarie nei confronti dei “maschi” presenti nel Salone, ma subito “ritoccate” gentilmente da Leonardo Vigna.

C’è una donna speciale verso la quale il sottoscritto indirizzò l’attenzione di tutti: Maria di Nazareth, donna libera da se stessa e rivolta pienamente agli altri e al totalmente Altro, modello di donna emancipata, dialogica, coraggiosa. È in lei che prese corpo la misteriosa relazione fra il Verbo e l’umano. Questa relazione si nota bene nell’«Annunciazione» del pittore veneziano Lorenzo Lotto († 1556/1557), dove l’angelo che irrompe è tanto reale che perfino il gatto fugge, impaurito. La paura ha però due forme: quella che ti fa fuggire e quella che ti sgomenta, e di conseguenza ti fa interrogare, meditare, chiedere. Quella, cioè, che avvolge Maria. Lei avverte il pericolo e presagisce che la sua strada sarà piena di spine. Ecco allora che un’ombra copre il suo volto. La relazione tra il Verbo e l’umano, tra il Logos e la storia, avviene nel timbro della paura. La paura risolta con un obbediente “sì”, intriso di libertà: Maria è obbediente, ma nel senso etimologico della parola. Obbedire è ob audire, cioè ascoltare. E Maria ascolta l’annuncio dell’angelo, con timore e tremore, proprio come Lotto mostra nel suo dipinto. Dice “sì” all’angelo, dopo averlo ascoltato. La sua grandezza sta nell’accogliere l’annuncio superando la dimensione del destino. Se non si supera tale dimensione non si è nell’evo della cristianità. Tutto è segnato dal tremendo e scomodo dono della libertà che obbliga ad ascoltare e ad essere responsabili. A volte è molto più comodo essere servi che liberi, responsabili e coraggiosi.

A concludere il dibattito, la lettura del testo «Maria, donna coraggiosa», da parte di Lucia Scarpetta e Asia Brogneri, radiosa e felice, tratto dal volume «Maria, donna dei nostri giorni» di don Tonino Bello. Il testo tenero e appassionato, ma anche coraggioso e anticonformista, che unisce il “parlato alto”, proprio dei poeti, al “dire quotidiano”, proprio dell’uomo della strada. La litania per i nostri tempi, ricca di squarci di catechesi e di lampi di luce.

A concludere invece il programma della Serata, le comunicazioni del presidente Luigi Cimino, relative al Circolo, l’annuncio del prossimo evento [venerdì 18 novembre, dalle ore 18.45, la 4ª Serata conviviale focalizzata su «Sandra Sabattini († 1984), l’artista della carità, e le altre donne come lei] e le istantanee del gruppo accompagnate dal music video «Forza e coraggio» di Alessandra Amoroso «per chi la notte attraverserà il mare per sbarcare in un giorno migliore». Per tutti, nel Salone, un invito «ad hoc», al convivio e al buffet, preparato con passione e gioia da Lucia e Iolanda, Ninetta e Loredana, «donne che ‹fanno bello il mondo›».

Piotr Anzulewicz OFMConv


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Le sante e le indemoniate

Le sante e le indemoniate: un tema affascinante e intrigante, con tanti bellissimi e sconvolgenti dettagli. Ce ne sarebbero stati molti di più se tra noi fosse stato il dr. Mattia Zangari, con il suo stile audace e autorevole, il fior fiore nel programma della 3ª Serata conviviale con «aperitivo» [220] che si è svolta venerdì 4 novembre 2022, dedicata a Eustochio [Lucrezia] da Padova († 1469), Jeanne des Anges († 1665) e le altre donne, sante e indemoniate, appunto. L’influenza lo ha inchiodato a letto e gli ha impedito di condividere le proprie conoscenze nel Salone di S. Elisabetta d’Ungheria situato al lato destro della chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido. Il suo studio Santità femminile e disturbi mentali fra Medioevo ed età moderna (Editori Laterza, Bari-Roma 2022) “riecheggiava” comunque nella presentazione – da parte di Tonia Speranza, affiancata dalle lettrici di alcune testimonianze storiche: Lucia Scarpetta e Iolanda De Luca – dell’orsolina Jeanne des Anges Belcier legata alla famosa vicenda della possessione diabolica di Loudun, una località ridente, nell’ancor più ridente regione francese Poitou.

È stato meraviglioso e, al tempo stesso, pericoloso l’ondeggiare tra le femmine umanizzate, “amorizzate” e benedette e le femmine disumanizzate, isteriche e maledette, tra il paradiso e l’inferno, tra la salvezza e la perdizione, tra la beatitudine e la dannazione. Davanti agli occhi dei partecipanti scorrevano le immagini horror che potevano terrorizzare e spaventare chiunque, ma anche quelle che potevano incantare e portare al settimo cielo. Le donne, con il cerchietto d’oro, furono preferite, pur presentate dal sottoscritto nella sfumatura, nella vaghezza, nel “compendio”. Si trattava soprattutto della benedettina Eustochio, la monaca che sconfisse il demonio e nel 1760 divenne beata, grazie a Papa Clemente XIII, precedentemente vescovo di Padova.

Ad aprire questa singolare Serata della 10ª edizione WikiCircolo dal filo rosso: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›», è stato il video musicale «A Madre de Jesu Cristo» (4:05′) dell’ensemble Elthin, la banda ceca, specializzata nella musica medievale e rinascimentale, fondata nel 2006 e diretta da Jan Pouska, vocalista e liutista. A infervorare la memoria dei presenti, lo sguardo sulle due Serate precedenti, con il video «Nel cuore della bellezza e tenerezza: 1ª Serata del WikiCircolo, con Jacopa de’ Settesoli...» e lo slideshow «Margherita, Angela ed altre donne mistiche» (il video «”Chiara di Dio”: 1ª Serata cinematografica [217]», bellissimo anch’esso, ‘imprigionato’ dall’app Biteable, è in attesa di liberazione da qualche benefattore).

Con il video «Essere donna nel Medioevo. Storie, ruoli e responsabilità al femminile» (5:32′), proiettato da Ghenadi Cimino, operatore audio-visivo, si è aperta la nostra ibrida tavola rotonda, offline e online, generando la fantasia e la curiosità e suscitando il confronto con la questione femminile di oggi, la questione colta nel segno dalla programmazione della 10ª edizione del Wiki– e CineCircolo, idealmente in sintonia con la fase narrativa del cammino sinodale della Chiesa e con i grandi testi del suo magistero [1. «Messaggio alle donne» di Paolo VI (8.12.1965); 2. Lettera apostolica «Mulieris dignitatem» sulla dignità e vocazione della donna (15.08.1988) e «Lettera alle donne» di Giovanni Paolo II (29.06.1995); 3. Esortazione apostolica «Evangelii gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale (24.11.2013) ed Enciclica «Fratelli tutti» sulla fraternità universale e l’amicizia sociale di Francesco (3.10.2020); 4. «I cantieri di Betania›: prospettive per il secondo anno del cammino sinodale» (5.07.2022) e «Sintesi nazionale della fase diocesana» del Sinodo 2021-2023 «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione» della CEI (15.08.2022)].

A conferma di questa felice sintonia – oltre le affermazioni contenute dalle nelle sintesi continentali del cammino sinodale – sono gli ultimi numeri di Donne Chiesa Mondo, il mensile femminile de L’Osservatore Romano, diretto da Rita Pinci. Ne diede notizia alla vigilia della Serata l’agenzia SIR (Servizio Informazione Religiosa), l’organo d’informazione della CEI sempre aggiornato su Chiesa, Vaticano, diocesi, conferenze episcopali e reti ecclesiali. Le donne «non sono veggenti – scrive la teologa Cettina Militello nel saggio che apre il numero di ottobre dedicato alle profetesse –, non predicano un futuro lontano. La loro profezia è istanza di libertà, intelligenza degli avvenimenti, capacità di visione: con mente attenta a quel che accade, parlano e operano perché il mondo non si perda e diventi più giusto e solidale. Superano barriere di genere, geografiche, culturali, religiose e si impegnano per la giustizia, la pace, la cura del creato».

«Le ribelli della povertà». Questo il titolo invece del numero di novembre di Donne Chiesa Mondo. «La povertà? È parola complessa – afferma nell’articolo di apertura suor Alessandra Smerilli, economista e segretario del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale. – E lo è ancora di più se la si affronta dal punto di vista delle donne». Chi sono “le povere”? Sono quelle da «commiserare come tutti coloro (maschi e femmine) che non possiedono nulla e sono costretti ad una vita difficile e spesso dolorosa? O c’è anche una povertà che nasce dall’idea di una felicità diversa, recidendo, sì, i legami con il consumo e con il mercato, ma rivendicando nel contempo libertà di scelta, parità e uguaglianza? Sì, c’è una povertà come metodo, come profezia, anche come ribellione e trasgressione. La povertà che libera, per dirla con Papa Francesco. La povertà che rende ricchi», l’interrogativo posto dall’editoriale. Povertà come benedizione per s. Chiara d’Assisi, che per sé e per le consorelle chiese questo “privilegio”, come racconta lo storico Giuseppe Perta. Suor Veronica Maria, già ballerina professionale, contesa da compagnie europee, che ha fatto studi di legge brillantissimi, difende oggi la scelta della povertà come “trasgressione” nell’intervista a Gloria Satta. Per suor Françoise Petit, superiora generale delle Figlie della Carità, il voto di povertà non è obbedienza a una Regola, ma «una condotta scelta liberamente». E poi le “povere” nella Chiesa e della Chiesa. Ecco le voci di teologhe, docenti, fedeli, sacerdoti, vescovi, raccolte da Lucia Capuzzi e Vittoria Prisciandaro: donne che proprio nella Chiesa vengono marginalizzate, umiliate, alle quali non si riconosce ruolo nonostante la loro fatica, cultura e intelligenza. «Povere sono le donne (quasi tutte) – constata Maria Pia Veladiano – che, al posto giusto, un posto di corresponsabilità visibile al mondo e ai fedeli tutti, potrebbero riempire le chiese di speranza e cambiare il mondo secondo il progetto del Regno e non possono farlo».

Non sono damine lamentose, abbandonate, sfortunate, sedotte, adagiate sul divano del pettegolezzo e della chiacchera quelle della 3ª Serata. Sono sante e indemoniate, trasgressive, coraggiose, ribelli, senza filtri sugli occhi e senza terrore di essere isolate e bruciate: piegano il mondo verso di sé, decidono che cosa fare della propria vita e scoprono come farsi valere e cercare la felicità.

Torniamo allora a Eustochio che riuscì a sconfiggere il diavolo… Nacque con il nome di Lucrezia Bellini a Padova nel 1444 da un rapporto adulterino tra Maddalena Cavalcabò, monaca, ed un signorotto locale, Bartolomeo Bellini. Il monastero di S. Prosdocimo era quanto mai “chiacchierato” ed era risaputo che la comunità monastica viveva nell’immoralità ed era aperta alla vita mondana a tal punto che veniva definito un “lupanario di meritrici”. D’altra parte a Padova, nel Quattrocento a fronte di oltre 20 conventi di frati e 30 di monache su una popolazione di circa 30 mila persone e moltissime chiese minori e parrocchie, la religiosità non era poi molta e la vita cristiana non così fervente, anzi, dilagava la corruzione e la simonia, cioè l’entrata in convento per comodità, interesse e non per vocazione, come nel monastero di S. Prosdocimo, nonostante lo sforzo e l’impegno della badessa nel dare un freno a quel malcostume.

Pare che una suora anziana, tale suor Maiorino, spingesse le sorelle ad una vita dissoluta e lo stesso fece con la madre di Lucrezia, che viveva presso il monastero benedettino sul Monte Gemola, sui Colli Euganei, oggi Villa Beatrice d’Este, spingendola a trasferirsi al monastero di Padova per facilitarne, a sua insaputa, l’incontro con il signor Bellini, già sposato, che viveva lì vicino, come di fatto successe… Una volta incinta e fintasi ammalata fece ritorno al Gemola.

Al compimento del settimo anno di età il padre affidò Lucrezia al monastero dove visse la madre, quello di S. Prosdocimo. Le monache di questo convento furono addirittura accusate di aver avvelenato la badessa causandone la morte, sostengono gli storici dell’epoca. In questo posticino, che non lasciava presagire nulla di buono, viveva la piccola Lucrezia ed è poco dopo il suo ingresso in convento che iniziò a manifestare i segni di una “possessione” demoniaca che l’aveva colpita già anni prima, quando manifestava scatti d’ira e irrequietezza. Quando il vescovo, alla morte della badessa, ordinò maggiore disciplina, ottenne che tutte le monache lasciarono il convento ed i voti, tranne Lucrezia che, mai distratta dalle attrazioni del mondo, scelse come ragione di vita la solitudine e la preghiera, in particolare alla Vergine Maria, a s. Luca e a s. Girolamo a cui era molto devota. Successivamente la raggiunsero in convento altre monache benedettine dal convento di S. Maria della Misericordia, sotto la guida della badessa Giustina de Lazzara.

Il 14 gennaio 1461 Lucrezia riceve l’abito benedettino color nero con il nome di “Eustochio”, prendendo il nome del suo santo prediletto, Gerolamo, e fu dopo questo momento che il “demonio” tornò a prendere il sopravvento su di lei, facendole compiere atti inconsulti e violenti nei confronti delle consorelle e violare la Regola. Per molti giorni fu addirittura legata ad una colonna. Successivamente dovette sopportare gravi sofferenze psicofisiche, contrasse una strana malattia con continui conati di vomito, fu incolpata di essere una strega e finì rinchiusa in carcere per tre mesi a pane ed acqua. Nonostante ciò, a forza di digiuni e preghiere, continuò a lottare contro il maligno e dimostrare alle monache del convento le proprie virtù. Così il 25 marzo 1465 fu ammessa alla professione solenne e due anni dopo ricevette il velo nero delle benedettine. La sofferenza l’aveva segnata e ne aveva ormai debilitato il fisico, colpito anche da piaghe che ne avevano deturpato il volto da renderla irriconoscibile. Morì il 13 febbraio 1469, alla giovane età di 25 anni, dopo che il suo acerrimo nemico di tutta una vita, il demonio, abbandonò il suo corpo restituendole sorriso e bellezza. Quando quattro anni dopo il suo corpo fu riesumato, dal sepolcro iniziò a sgorgare l’acqua taumaturgica, con le frequenze della luce perfette, straordinarie, potenti.

Nel 1475 il corpo era stato portato nella chiesa di S. Prosdocimo (conosciuta oggi anche come Duomo dei Militari) e dal 1720 reso visibile in una teca di cristallo. Nel 1760 Eustochio divenne la beata Eustochio. Nel 1806, soppresso il monastero presso il quale il flusso di acqua miracolosa smise di uscire, il suo corpo fu portato nella chiesa di S. Pietro e posto sull’altare della cappella laterale. Attualmente la salma si trova al duomo di Padova per lavori di consolidamento e restauro della chiesa di S. Pietro.

Eustochio fu un esempio di grande forza, determinazione e soprattutto fede che, alla fine della sua breve vita, riuscì a sconfiggere il demonio che si era impossessato del suo corpo fin dalla tenera età. Fu per questo motivo che venne “beatificata” e considerata oggi la protettrice di chi soffre di tribolazioni spirituali quali posseduti ed indemoniati vari, un punto di riferimento per i sacerdoti esorcisti di tutto il mondo oltre che per i fedeli che venerano il suo culto.

A questo punto alle orecchie dei presenti nel Salone arrivarono le splendide note e le ardite parole delle due canzoni di ispirazione medievale: «Lo paure Satan» e «Er dei tripetas», eseguite dall’ensemble «Anonymous & Strada», tratte dall’album «A la via!» (08:49-11:24′) e accompagnate dalle eloquenti immagini proiettate da Ghenadi sul grande schermo.

Ed ecco il momento per Jeanne des Anges, badessa delle Orsoline di Loudun, presentata da Tonia, in collaborazione con Lucia e Iolanda che hanno letto alcune testimonianze attinte dal libro di Mattia. Jeanne des Anges è una suora senza vocazione, abituata ad essere obbedita dalle consorelle e a vivere come una regina. Nel 1634 scrive al curato Urbain Grandier, per offrirgli il posto di confessore per se stessa e per le sue compagne. Il curato è carismatico, di vasta cultura, giovane e – a leggere le vecchie cronache – è molto bello, ammirato sia da cattolici che da protestanti. E’ un uomo più importante della città e nella regione del Poitou. Il suo rifiuto del posto brucia a suor Jeanne, che decide di vendicarsi su di lui ed umiliarlo, pur essendo innamorata in lui, in maniera ossessiva e maniacale, da quando lo ha visto una sera di sfuggita e ha sentito parlare delle sue avventure. Così lei e altre suore cominciano a manifestare segni d’isteria, accusando Grandier di averle visitate la notte nelle loro celle e di averle toccate contro la loro volontà. Inoltre, molte di loro hanno le convulsioni e bava alla bocca, descrivono gli amplessi con parole sconce che non possono conoscere, a meno che qualcuno non gliel’abbia rivelate. Indemoniate è il verdetto comune della gente e suor Jeanne si rivolge a un suo parente a corte. Ha gioco facile perché Grandier più di una volta ha parlato contro card. Richelieu, primo ministro del re Luigi XIII, e la sua politica accentratrice. Subito è spiccata un’accusa di stregoneria e di immoralità verso il prete che viene arrestato, imprigionato, torturato e condannato a morte. Il 18 agosto 1634 è bruciato sul rogo come stregone. Suor Jeanne des Anges resta indemoniata fino al dicembre 1639 quando miracolosamente guarisce. Muore il 29 gennaio 1665, in odore di santità. Sulla sua vicenda e sulle monache stregate e ossesse, il più famoso caso di possessione demoniaca della storia, c’è un bellissimo film ispirato al romanzo «I diavoli di Loudun» di Aldous Leonard Huxley († 1963), scrittore e filosofo, e diretto nel 1971 da Henry Kenneth Alfred Russell († 2011), regista e sceneggiatore: «I diavoli».

La canzone «Stella splendens in monte», tratta dal Llibre Vermell de Montserrat (XIV sec.), apri il dibattito, per niente letargico, ma inebriante e a tratti elettrizzante.

Rosa Mercurio, assidua e affezionata frequentatrice delle Serate, raccontò, con un cuore luminoso come il sole, il suo amore per la b. Eustochio, coinvolgendo le emozioni dei presenti nel Salone. Nel 2012 è andata con il suo malato sposo a Padova dove già vivevano i suoi tre figli medici. Un non-luogo, Padova, diventò presto il luogo per eccellenza, grazie ad una casuale scoperta della b. Eustochio nella chiesa di S. Pietro, situata vicino al suo appartamento preso in affitto. È stata lei ad incantarla e accompagnarla, per un anno intero, fino alla morte del suo amato sposo. Le ha fatto sentire che la malattia non è strazio… Ogni giorno si recava in chiesa ed entrava nella cappella dove è custodito il suo corpo. Lì si sentiva a suo agio, come se fosse immersa in una luminosità che le mostrava quanto è ampio il ventaglio delle esperienze umane che è possibile accogliere in sé. Questo non era il tempo di «girl meets boy», delle favole o commedie romantiche medievali, ma la porta di un mondo nuovo, beatifico, luminoso. Eustochio svelava e dava respiro a qualcosa che è evidente nei santi, ma in fondo è profondamente umano, e ci riguarda tutti. Riempire di senso le parole come amore non è facile, ma è qui che i santi puntano e a volte fanno centro.

Il sottoscritto mostrò allora il disegno di Vitale Frontera, figlio adottivo di Marialuisa e del memorabile Peppino. Un disegno bello, fine, artistico, realizzato a penna, raffigurante la b. Eustochio. Avrebbe voluto parlare a lungo delle lettere che salvano la vita quando l’amore si spezza, ma si fermò per mancanza di tempo. Si tratterebbe di Lettres portugaises, pubblicate per la prima volta a Parigi nel 1669 e ripubblicate fino al 1800, ma nessuno sa chi le abbia scritte. È uno dei più fitti misteri nella storia dell’editoria. L’ipotesi più affascinante è che le abbia scritte Mariana Alcoforado, monaca, che visse tutta la sua vita nel convento della Nostra Signora della Concezione a Beja, nel Basso Alentejo, al confine con l’Andalusia. «Si era innamorata, Mariana. Si era innamorata – sostiene Gaia Manzini nel bellissimo articolo Le cerimonie dell’addio, pubblicato su Il Foglio del 7-8 maggio 2022 – di un ufficiale francese, un certo Noël Beuton, conte di Chamilly, di stanza in Portogallo. E allora Mariana gli scrive; scrive tanto e scrivendo rompe il silenzio nel quale è stata costretta a vivere. […] Scrive in modo appassionato. Ha uno stile intrepido, impensabile per una religiosa e una voce incisiva e lirica che tanto affascinò Rilke. Le lettere sono cinque. L’ultima è una lettera di addio che inizia da una restituzione. Mariana, consapevole del suo amore non corrisposto, fa restituire al suo amante i regali con cui lui l’aveva omaggiata: un ritratto e dei braccialetti. È bellissimo questo dettaglio. È come quando un innamorato regala una sua foto all’amata, quasi a dire: ‘Eccomi sono io, non ti dimenticare di me’. E, ancora, i braccialetti: il più delicato ornamento femminile – meno impegnativo di un anello e meno impositivo di una collana. L’ornamento per una femminilità rivelata solo all’amante. I braccialetti che una religiosa non potrà mai indossare, se non nei loro incontri segreti […]. Si vorrebbe che quanto c’è stato non fosse mai accaduto» (p. 13).

Maria Rainone, insegnante in pensione, anch’essa assidua frequentatrice del Circolo insieme al suo marito, Roberto Le Pera, riferendosi al contesto storico delle sante e indemoniate, rammentò la storia di Marianna de Leyva, la Monaca di Monza, Gertrude. di Promessi sposi, che da una finestra aveva visto la prima volta l’amante e da quel momento non aveva pensato ad altro, dice Alessandro Manzoni. Tutti noi sappiamo benissimo che spesso ci si convince di amare, perché amare è bellissimo. È bellissimo anche fingere di amare. È una prova attoriale che tira fuori il meglio di noi e lo si fa sempre con le migliori intenzioni, con il recondito desiderio di innescare una metamorfosi che ci trasformi in creature straordinarie.

Al microfono, infine, p. Jorge Campelo de Albuquerque e Melo, francescano brasiliano e dottorando romano, affabile ospite della fraternità conventuale del «Sacro Cuore», che focalizzò l’attenzione dei presenti sul volto femminile della Chiesa in Brasile. «Non si può – constatò – capire la Chiesa brasiliana senza le donne». La costatazione che richiamò le parole di Papa Francesco pronunciate nella lunga intervista «senza rete e senza filtri» sul volo di ritorno da Rio de Janeiro a conclusione della 28ª Giornata Mondiale della Gioventù (28.07.2013): «Una Chiesa senza le donne è come il Collegio apostolico senza Maria. Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, della Madonna; quella che aiuta a crescere la Chiesa! Ma pensate che la Madonna è più importante degli Apostoli! E’ più importante! La Chiesa è femminile. […] Il ruolo della donna nella Chiesa non solo deve finire come mamma, come lavoratrice…, limitata». Non riduciamo allora l’impegno delle donne, ma, anzi, promuoviamo il loro ruolo attivo nella comunità ecclesiale.

La tavola rotonda si concluse con la lettura di un brano finale della Lettera apostolica «Mulieris dignitatem» sulla dignità e vocazione della donna di Giovanni Paolo II (n. 31). Seguirono quindi le comunicazioni del presidente Luigi Cimino, relative al Circolo, la foto comune accompagnata dal brano musicale di ispirazione medievale «Bransle des chevaux» di Thoinot Arbeau, tratto dall’album «A la via!». E un grazie corale a Federica Astarita: la sua torta fu squisita!

Piotr Anzulewicz OFMConv


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