Con il Cuore al centro

Una Serata speciale, quella che si è svolta l’8 giugno 2018, presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido, con il Cuore al centro. È stata creata dal Circolo Culturale San Francesco in concomitanza con la solennità del Sacro Cuore di Gesù e a coronamento delle celebrazioni liturgiche e paraliturgiche. Tutta all’insegna della tenerezza, spiritualità e convivialità. Divinamente si è inserita nella «Lunga Notte delle Chiese»: una manifestazione per avvicinare la comunità, che godeva del patrocinio del Pontificio Consiglio per la Cultura e del Ministero dei Beni Culturali, e della collaborazione delle diocesi italiane.

Il Circolo, che nel suo logo ha il simbolo di cuore, non poteva non “chinarsi” sul cuore: il centro operativo più intimo, la scaturigine delle relazioni dinamico-personali con l’altro, l’organo esatto della comprensione integrale, la sede privilegiata dell’uomo non-ancora-rivelato – infatti, in ognuno c’è «l’uomo nascosto del cuore» (cfr. 1 Pt 3,4). Esso non è l’illogico o l’irrazionale che si contrappone al logico o al razionale. È invece un’attitudine conoscitiva diversa da quella della ragione. Il cuore ha il suo «ordine» (R. De Monticelli) e le sue «ragioni che la ragione non conosce» (B. Pascal). Solo le ragioni del cuore hanno la chiave per entrare nel mistero dell’altro. Non si può conoscere l’altro «io» se non lo si avvicina con il sentimento positivo dell’amore che è il punto più alto e più profondo della funzione del cuore. Forse è venuto il tempo in cui si debba riscoprire il cuore come punto di sintesi di tutte le dimensioni della persona, da quella affettiva e volitiva a quella razionale e religiosa, come «luogo dell’integrazione viva, come spazio in cui l’uomo è già intero, non frantumato o smembrato» (M. I. Rupnik), come luogo dove l’intelletto ha il suo sentimento e dove il sentimento intende e comprende… Il cuore o l’«uomo-cuore» (S. Palumbieri) è l’uomo «tutto intero». Egli, vivendo nel corpo, pensando, progettando, decidendo, disperandosi e collezionando sconfitte, continua tuttavia a rilanciare speranze. L’uomo è un essere speciale. Il suo essere è il sentirsi-essere, in moto permanente, in vibrazione costante, in tensione perenne. È l’in-quietudine, l’incapacità di placarsi, la vibratilità costitutiva, l’«abisso» da colmare, la «finitudine» da completare, l’«ammasso di fallibilità» da purificare, l’«interrogativo» da ascoltare… È come un ago calamitato che continua a vibrare finché non è puntato verso il suo Nord, l’Infinito, l’Assoluto. «Inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te» (Agostino d’Ippona), l’Amore di Dio incarnato ed «umanato» (Angela da Foligno), l’unica risposta perfetta al nostro «inquietum cor».

Nel programma della Serata ci stava a cuore tutto ciò che riguardava il cuore, in tutte le sue sfumature e dimensioni: «intelligente» (1 Re 3,12; Prov 14,33; 15,14; 18,15), «saggio» (Sal 90,12), «retto» (1 Re 3,6), «integro» (1 Re 11,4), «mite e umile» (Mt 11,29), «risoluto» (At 11,24), «creativo»… Ne hanno parlato con passione e competenza i protagonisti della tavola rotonda: Valentina Gulli, Clarissa Errigo e Teresa Cona, ed altri ed altri ancora: Stefania, Gino, Marisa, Maria… I videoclip, proiettati da Ghenadi, hanno reso la Serata ancora più toccante e vibrante. Le parole erano amore e noi continuavamo ad assorbirle abbondantemente, perché questa era l’aria che si respirava nella giornata del Sacro Cuore. Le immagini e le melodie ci offrivano stimoli e indicazioni grazie ai quali sentivamo che il Sacro Cuore richiamava il nostro cuore. Tutti abbiamo bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto al Cuore divino; di un cuore tenero, generoso, «intelligente» che non si lascia chiudere in sé e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza; di un cuore «sociale» che si spende per l’altro e il totalmente Altro. Una Serata davvero con il Cuore al centro. 

Piotr Anzulewicz OFMConv

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…vibrava l’ideale della nonviolenza

In ogni scelta non dobbiamo mai lasciarci guidare dalla logica della violenza, e neppure da quella del taglione, cioè dell’«occhio per occhio» e «dente per dente». Non ne hanno avuto dubbi i presenti alla 9ª Serata cinematografica, che si è svolta venerdì 25 maggio 2018 presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido. La Serata si è aperta − è vero − con il videoclip «Giocondità», la marcia militare eseguita dalla banda della Polizia di Stato in Piazza del Duomo di Milano, ma si è conclusa con il filmato AmandoTi» realizzato dai ragazzi disabili del Centro riabilitativo «Nuova Itaca» di San Pietro in Lama (Lecce) con la collaborazione di artisti e musicisti del Salento, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne. Nell’aria vibrava l’ideale della nonviolenza, della comunione, della fratellanza. Con il film «All Cops are Bastards» (Tutti i poliziotti sono bastardi) del regista Stefano Sollima, ideato all’interno della 6ª edizione del CineCircolo dal motto: «I giovani con ‘sorella’-‘madre’ Terra per immagini», e la cineconversazione, moderata dalla dott.ssa Teresa Cona, si è voluto mettere in risalto la legge che il cristianesimo ha impiantato in Europa come un ideale e una missione: la legge di solidarietà, di amore e di unità di tutta l’umanità. Questa legge, oggi minacciata, marginalizzata, disprezzata e addirittura rifiutata, erede del patrimonio biblico giudaico-cristiano, ci garantisce comunque che, di fronte alla diversità di persone e culture, religioni e popoli, tutti gli uomini sono fratelli e sorelle, come costantemente ce lo ricorda anche frate Francesco d’Assisi, nel suo «Cantico delle creature». Questo è ciò che dice la Bibbia nei suoi capitoli iniziali. La nozione che l’uomo è creato a immagine di Dio rappresenta la base della dignità incondizionata e universale di ogni persona umana. Si tratta della dignità che non ci può essere mai tolta: né per la cattiva condotta, né per la disabilità, né per la differenza religiosa, etnica o di genere.

Guardando l’intenso film di Sollima – uno spaccato di realtà che getta una luce cruda su un mondo in cui oppressori ed oppressi, carnefici e vittime, si scambiano rapidamente i ruoli e vengono osservati da un punto di vista che esclude pregiudizi e stereotipi, scandagliando in profondità la psiche dei protagonisti e le problematiche di una società orfana di regole e abbandonata all’insicurezza e all’anarchia − per certi versi ci siamo sentiti posti sul banco degli imputati. Spessissime volte anche noi siamo oppressivi e persecutori. Eppure professiamo un Dio uno e trino, antidoto alla violenza e causa di riconciliazione, manifestazione in Cristo di un amore che non cerca il dominio, ma rende per sempre contraddittoria la violenza tra gli uomini. Crediamo in un Dio che è comunione, unione, amore. Pace e nonviolenza sono parte integrante e decisiva del nostro credo cristiano. Fortunatamente sono rari i cattolici che vorrebbero armarsi contro un nemico. C’è tuttavia una violenza più sottile e più diffusa, quella fatta di parole, di atteggiamenti, di modi di relazionarsi. È quella a cui fa riferimento Papa Francesco quando dice di evitare il proselitismo, l’ingerenza spirituale, la costruzione di muri di risentimento, di odio e di vendetta…

Una Serata indimenticabile, ‘non aggressiva’, ‘non violenta’, ma ‘pacifica’, mite, tenera, nel giorno in cui il Papa ha ricevuto in udienza i funzionari, gli agenti e il personale civile della Polizia di Stato, incitandoli ad avere «coraggio, mitezza e tenerezza».

Piotr Anzulewicz OFMConv

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Bellezza collaterale di ogni cosa

Amore, tempo e morte: ecco il nucleo dell’8ª Serata cinematografica (la 124ª) con la proiezione del film «Collateral Beauty» [La bellezza collaterale], la cineconversazione «La speranza della vita oltre la morte» e il «cocktail», svoltasi l’11 maggio 2018 presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido. Non il governo, la trattativa, il voto, ma l’affetto, l’attesa, la disperazione… Insomma, l’umanità.

Ecco noi, loro − protagonisti della pellicola −, tutti che tendono le braccia verso la luce, il faro, lo splendore, la bellezza, la pienezza di vita. E aspettano, come si aspetta una rockstar, un sogno, il futuro. Tutti vogliono qualcosa o qualcuno che non hanno ancora o non hanno più, quello che hanno perso, quello che cercano ogni giorno di ottenere, quello che vorrebbero anche solo per un attimo, quello che li fa sempre sentire insoddisfatti. Tutti hanno un desiderio inappagato. Ed è nei desideri inappagati e nelle verità, a volte surreali, che noi vediamo riflessa la condizione umana. «Dalla soddisfazione e dall’appagamento non può nascere − afferma giustamente Annalena Benini nell’articolo «Loro due e tutti noi», pubblicato il 12 maggio su «Il Foglio Quotidiano» − un’opera d’arte, una poesia meravigliosa, un grande film. Dal desiderio e dalla paura, sì» (p. 1).

La Serata ha preso quota con il videoclip «Il giorno di dolore che uno ha»: la ballata rock scritta ed eseguita da Luciano Riccardo Ligabue, cantautore, musicista, scrittore, sceneggiatore e regista, per l’amico giornalista musicale Stefano Ronzani, nel tentativo di stargli accanto e di incoraggiarlo a non perdere la speranza nell’ultimo periodo della sua gravissima malattia. Ha proseguito con la presentazione del programma, da parte della dott.ssa Teresa Cona, segretaria del Circolo, con le sintetiche note sul regista, con la proiezione, con la discussione e con la Preghiera di Papa Francesco per i giovani. Ha concluso il suo volo con il video musicale «Dreams» dei Cranberries e di Dolores O’Riordan († 15.01.2018), cantautrice e musicista irlandese, grande estimatrice di Papa Giovanni Paolo II, che incontrò personalmente a Roma, in occasione della sua performance al concerto di Natale del 2001, e che si esibì ai concerti di Natale tenutisi nella Città del Vaticano nel 2002, nel 2005 e infine nel 2013, su invito di Papa Francesco. A stupire i presenti e soddisfare i palati più esigenti, c’è stata anche la pizza di alta qualità.

Le tre entità: «amore», «tempo» e «morte», emerse nel film ispirato al famoso romanzo Canto di Natale [A Christmas Carol, in Prose. Being a Ghost-Story of Christmas] di Charles Dickens, ci sfidano e invitano a riflettere. Hanno vari volti e differenti forme. Forse è vero che solo la bellezza collaterale delle cose − lo splendore discreto di un evento, il fascino inatteso di un gesto, la luce raggiante di un incontro che esplode in chi si riapre alla vita − sia l’unica in grado di creare un collegamento tra loro e di renderci connessi gli uni con gli altri, anche se viviamo in modo diverso e sentiamo la vita attraverso forme differenti. «La vita − canta O’Riordan − non è mai piatta» (Dreams) e non va sprecata. Non è sempre necessario farcela da soli. Esistono gli altri e possono aiutarci, nei momenti dolorosi e terribili, come in Collateral Beauty i tre amici del dirigente pubblicitario Howard Inlet (Will Smith): Whit Yardsham (Edward Norton), Simon (Michael Peña) e Claire (Kate Winslet). Fantastici.

Piotr Anzulewicz OFMConv

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Un battito di cuore alla sfida delle sette…

«A me gli occhi, prego», direbbe l’8ª Serata conviviale con «aperitivo» focalizzata sul tema «I giovani: facile bersaglio delle sette occulte e dei nuovi movimenti religiosi» e collocata nell’ambito della 6ª edizione del WikiCircolo dal motto «I giovani con ‘sorella’-‘madre’ Terra», che si è svolta il 4 maggio 2018 nel Salone «S. Elisabetta d’Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido.

Il tema, esposto da don Vincenzo Agosto, Alex Scicchitano e il sottoscritto, e illustrato con i due video (Illuminati. Spiegazione del loro «simbolismo» e Il lato oscuro dei social network), per ben due ore ha tenuto incollate persone che pian piano riempivano il Salone. Tra loro, i fantastici membri del Rinnovamento nello Spirito.

Serata straordinariamente intensa per chi ha regalato un battito di cuore alla sfida delle sette e dei «nuovi movimenti religiosi» o dei «culti» e, in particolare, ai giovani vulnerabili, «sconnessi», «senza legami», in pericolo, a rischio di fascinazioni occulte o già «pescati», trascinati e finiti negli ingranaggi di una finta spiritualità, plagiati dai guru, «deprogrammati» contro la loro volontà e resi schiavi delle sette, eppure sempre «appetibili», in cerca di un «dulcis in fundo», cioè di un’offerta di senso, di perché, di valori che entusiasmino, foss’anche in forma di surrogato rispetto al caffè, che altrove esiste, ma non è stato mai gustato a fondo.

Togliamoci però dalla testa che a finire negli ingranaggi della finta spiritualità sono solo i giovani vulnerabili e sprovveduti, gli anelli deboli della società. «Ciascuno di noi può cascarci» − scandisce Giuseppe Ferrari del Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-religiosa (GRIS) di Bologna, l’osservatorio anti-sette della Chiesa cattolica. Sfoglia l’archivio delle segnalazioni: avvocati, dirigenti, impiegati, professori, persino magistrati. Altrimenti non sarebbero oltre un milione le persone che in Italia nutrono una galassia di oltre 600 sette religiose e di ancora più numerose le psico-sette, dalla facciata un po’ eccentrica (49%), di quelle sataniste (18%) o stregonesche (18%). Sono italiani medi gli “irretiti”, i “plagiati”, i “succubi” di oggi. La dott.ssa Lorita Tinelli del Centro Studi Abusi Psicologi (CeSAP) di Bari, tra i più attivi centri d’assistenza psicologica e legale per vittime di plagio, desolata ed avvilita confida: «Perfino un collega psicologo…». E don Aldo Buonaiuto della Comunità Papa Giovanni XXIII, l’unica associazione a offrire un numero verde anti-sette sempre disponibile, conferma: «Il 70% dei nostri casi riguarda persone istruite, perfino laureati, spesso facoltosi».

I santoni d’accatto e i ciarlatani dell’anima vanno sul sicuro. Preferiscono pesare le vittime tra i clienti dei fitness club, dei corsi di Shiatsu e di Qi Gong, nella classe media consumatrice di salutismo psicofisico. Ad esempio, Elena di Milano, una libera professionista, riferisce: «Mia sorella mi iscrisse a un ciclo di pranoterapia. Sembrava tutto normale, ma poi spuntò la santona, affabile. Ci parlava del “terzo occhio” e della “luce sopra di noi”. Era piacevole ascoltarla. Ci annunciò che poteva “canalizzare Gesù” dentro di noi e ammetterci a un circolo esclusivo di prescelti, pieno di persone importanti, attori, soubrette, nomi famosi… Perché no? Chissà, magari funziona. Sembrava un regalo. Cinquanta euro a incontro, non sono poi tanto. Ed era così bello sentirsi circondati di apprezzamento, avvolti d’amore. Solo che, via via, la gentilezza spariva e subentravano prima le prove di perfezionamento, gli esercizi spossanti e poi le sgridate, l’autorità, le imposizioni. Ci mettevano contro i nostri cari e ci impedivano di coltivare altre amicizie. Io uscivo dalle sedute terrorizzata e piangente, ma non riuscivo a staccarmi. Quella minacciava: “Se te ne vai, Cristo ti abbandona, perderai la vita”. Ero la reietta, l’apostata. Ci ho messo tre anni ad uscirne. E altri tre a liberarmi dal senso di fallimento».

Il discount della felicità in vetrina e l’abisso della spersonalizzazione nel retro. Secondo Massimo Introvigne, sociologo e saggista, fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CeSNuR), dice che la parola “setta” è obsoleta, perché ricorda massonerie e riti fumosi: «Ora vanno fortissimo le religioni neobuddiste giapponesi, il cui motto è Genze riyaku, “beneficio immediato”. Ecco la lusinga: un benessere spirituale pronta cassa, da bere d’un fiato, come una bevanda dietetica». A suo parere non siamo una società secolarizzata. Siamo invece una società di «credenti senza appartenenza», di fedeli a caccia di parrocchie easy-fit, assetati di esperienze più che di credenze, più clienti che adepti. È un bisogno crescente di spiritualità, ma di quella semplice, aerobica ed efficiente, già disponibile nell’aldiquà e non rimandata all’aldilà, di un wellness interiore che ti fa finire dritto in braccio a quelli che la criminologia non definisce più sette religiose, ma “gruppi distruttivi”. L’offerta è vastissima ed ossessiva: lusingando arriva in tutte le case, sul web, WhatsApp, Facebook, Twitter… e le difese sono bassissime.

Una rara sospettosa chiede al GRIS: «Potete dirmi cos’è il “lavaggio energetico emozionale”? Sono una buona cattolica e non vorrei cacciarmi in un pasticcio». Chi però va a sospettare del crocefisso? Paolo, laureato da poco, voleva festeggiare il suo ritorno alla fede e iniziare la preparazione alla cresima, ma quel gruppo che aveva sede in una parrocchia era un po’ strano. «Dopo la bella accoglienza iniziarono certi discorsi sui “nemici della fede”, sulle tentazioni carnali. Me ne andai e subito cominciarono le persecuzioni: irrompevano in negozio e mi telefonavano a casa di notte: “Sei un prescelto, sei un eletto. Se abiuri, farai una brutta fine”. No, non era un corso per cresimandi…».

«L’inferno − scrive il giornalista Michele Smargiassi − comincia di solito con un leggero gesto consumista: si sceglie un percorso spirituale come un paio di carine scarpe sportive». Il tuffo nel tunnel di Alessandra, ad esempio, iniziò con un volantino sul bancone di una libreria: un innocente corso di Reiki, “prima lezione gratuita”, che male c’è? Accoglienza allegra e luminosa. «Ci dipinsero l’esperienza come un paradiso». E via, aprire i cuori e i portafogli: una serata − 260 euro, un corso “residenziale intensivo” − 1200 euro, e le attività che diventavano sempre più strane e scabrose: «Si parlava quasi solo di sesso», i «lavori» sfiancanti, le notti quasi insonni. Così quando arriva il momento dell’esperienza no-limits, quella del gong, «sei in una condizione di offuscamento mentale». Anna, di Bari, finì nel tunnel per seguire il fidanzato. «Se non andavo, mi avrebbe lasciato. Il guru voleva così e io per amore avrei fatto ogni cosa, a ventidue anni». In quel gruppo era il guru a fare e disfare la vita di ciascuno. Ubbidire o essere puniti, e la punizione era la «trasgressione creativa». «Il guru stabiliva con chi il tuo ragazzo doveva tradirti. Un giorno mi disse che dovevo prestarmi per una “trasgressione creativa”. Gli dissi: “Siete matti”, e trovai la forza per mollare tutto».

Quanti però non hanno coraggio di reagire e abbassano la testa? All’e-mail di don Aldo Buonaiuto arrivano storie come quella di una signora, moglie di un medico e madre di tre figli, che sparisce dopo un misterioso seminario a Milano, lasciando solo un talismano con un serpente. «La polizia ci ha detto che non si può fare nulla perché è diritto di un maggiorenne…». Simil-cristiani, para-buddisti, pseudo-scientifici, misteriosofici… La metodologia è la stessa: un letale mix tra tecniche di marketing e arsenale da torturatori di Abu Ghraib. Franca, madre con due figlie, raccontò a «Famiglia Cristiana» della dieta rivoltante imposta da un sedicente “angelo reincarnato”: «Pasta, solo pasta, aggiungendone se non finivo il piatto, mi faceva mangiare anche quella che vomitavo».

«L’incapacità di ribellarsi − scrive ancora Smargiassi − sembra inverosimile solo a chi non ha toccato con mano l’infernale meccanismo della sudditanza psicologica, come Franco a cui hanno rubato un fratello: “Incontrò questo santone. All’inizio me ne parlava entusiasta, tutto bello, puro, etereo… Avevamo appena avuto un lutto in famiglia. Può capitare a tutti, ma se qualcuno si infila nella tua crepa, l’abisso è lì, caderci è un attimo, e non risali più. Quello diceva di essere Dio, niente di meno, e come si fa a tradire Dio? ‘Se te ne vai, il tuo karma soffrirà, evolverai per saturazione!’. Cosa volesse dire, non so, ma mio fratello ne era paralizzato. Non c’è più il reato di plagio in Italia, è vero, ma questa è riduzione in schiavitù, si potrà fare qualcosa”». Che cosa?

«Attilio di Verona ha mobilitato anche l’Interpol, ma di suo figlio ventiseienne non sa più nulla. “Due anni fa perse il lavoro. Si mise a cercare su Internet. Trovò questa comunità, sorrisi, crocefissi al collo, cieli azzurri. Non ebbi il cuore di trattenerlo. Mesi di silenzio. Mesi fa, una telefonata: lui, piangente. Mi disse: ‘Papà, dimmi le cose più brutte, ma vienimi a prendere, salvami’. Mille chilometri di distanza, li avrei fatti anche di corsa, gli dissi di prendere i documenti e scappare. Lo fece, ma lo ripresero. Mi richiamò con una voce falsa: ‘Papà, mi ero sbagliato, sto bene’. Ora al cellulare rispondono altre persone e buttano giù”. Gli trema la voce. Il far West delle anime ha avuto un altro scalpo».

E cosa dire del «satanismo acido» che sta travolgendo gli adolescenti? Spesso loro stessi sono «a caccia» di satana sul web. Gli ‘adepti’ di satana, reclutati attraverso i social network e i profili di Facebook blindati, cioè non accessibili a tutti, sono in forte crescita. E’ proprio Facebook, il social per eccellenza ad essere utilizzato, più di tutti gli altri presenti in Internet, per contattare i ragazzi sensibili al fascino del “Signore delle Tenebre”. Ed è anche il ‘luogo’ dove la Polizia di Stato ogni giorno scova decine di nuovi simpatizzanti. L’età a rischio è quella compresa tra i 12 e i 22 anni. «Frasi ad effetto, musiche dark spinto, fotografie di sangue e teschi, e questi ragazzi soli davanti al pc, e spesso per la maggior parte della giornata, vengono risucchiati dal vortice dell’oscuro − spiega a Panorama.it Maria Carla Bocchino, dirigente responsabile della Divisione Analisi del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato. − Vengono quasi ipnotizzati con musiche “realizzate” al computer dove si sentono lamenti strazianti e voci sofferenti ed agonizzanti». Un ruolo importante possono giocare anche i tratti definibili come ‘schizoidi’ e ‘antisociali’ dei ragazzi. Un adolescente, che aumenta il suo isolamento fisico e psichico dalla società normativa e manifesta comportamenti antisociali (vandalismo, furti, violenza…) e abusi di alcol e droga, merita senz’altro attenzione anche rispetto alla possibile adesione a una setta, ma la meriterebbe comunque, indipendentemente dalla eventuale soluzione satanica. Certo, anche la propensione per l’occulto, il gotico e la necrofilia sono segni che vanno tenuti d’occhio.

E’ estremamente importante che i genitori monitorizzino il computer e il cellulare del figlio o della figlia, prestando la massima attenzione a che cosa guarda sul web e con chi interagisce. Spessissimo queste sette sataniche acide si nascondono dietro profili di Facebook, ma anche dietro ad semplici associazioni onlus. Questi sono i casi più complessi da individuare, ma con un po’ di attenzione un adulto riesce ad intercettarli. «Se un genitore lo ha già scoperto − afferma Nadia Francalacci, collaboratrice dei servizi informativi centrali della Radio Vaticana −, deve rivolgersi alla Polizia postale che è in grado di entrare nel sito o profilo sospetto ed eventualmente oscurarlo. Con questi ragazzi non è consigliabile mai avere un atteggiamento duro e intransigente perché sono proiettati in una realtà che è difficile da gestire.

Ebbene, i giovani hanno bisogno di un chiaro orientamento e di vera spiritualità, di entusiasmarsi per un grande ideale e di sentirsi protagonisti di una società futura, più umana e più solidale. In caso contrario rischiano di diventare adulti non vivendo, ma lasciandosi vivere dietro la corrente, baloccandosi tra moto e flirts, assordandosi in discoteca o nei pub, sempre e comunque a caccia di sensazioni epidermiche che li facciano uscire da sé, oltre un sano “divertirsi”, fino a darsi allo “sballo”, agli sport estremi e, nei casi peggiori, perfino all’alienazione della droga e all’«abbraccio» delle sette… Ecco perché la moderna Caritas li inserisce nella categoria dei «poveri appettibili». E l’attuale edizione del Wiki– e CineCircolo continua a regalare a loro e a favore di tutti, ostinatamente e gratuitamente, ogni venerdì, un battito di cuore…, insieme all’«aperitivo» e al «cocktail».

Piotr Anzulewicz OFMConv

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Amore forte e debole, “calpestato” ed occultato

Che cosa si può dire della 7ª Serata cinematografica (la 122ª), con la proiezione del film «Silence» del regista statunitense Martin Scorsese, la cineconversazione «Il cristianesimo − “saper morire per Cristo”» e il «cocktail», ideata all’interno della 6ª edizione del CineCircolo con il motto: «I giovani con ‘sorella’-‘madre’ Terra per immagini», che si è svolta venerdì 27 aprile 2018, presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido? Commovente ed impressionante, con un film di una vita, terso e abbacinante di immenso dolore e di alta qualità pittorica e potenza allegorica, e l’argomento di attualità con cui confrontarsi nel proprio tessuto vitale, sull’amore per Cristo, l’amore eroico, l’amore dolce e amaro, l’amore tradito, “calpestato”, nascosto, occultato. Un argomento da “sviscerare”.

La Serata è decollata dal video «La persecuzione dei cristiani»: un ampio sguardo sulle sofferenze dei cristiani e sulle violazioni della libertà religiosa in tutto il mondo, dalla Nigeria alla Corea del Nord, passando per Iraq, Siria, Pakistan, Cina, là dove la fede in Cristo può costare la vita. Si librava per ben 160 minuti con il film e si è prolungata nella conversazione, moderata dalla segretaria del Circolo, dott.ssa Teresa Cona.

E’ stata la fortuita occasione per andare alla radice di quell’amore “calpestato” e occultato che è al centro del romanzo Chinmoku di Shūsaku Endō († 1996), scrittore cattolico giapponese, da cui Scorsese ha tratto l’ispirazione. Pubblicato nel 1966 (trad. it. Silenzio, Milano 1982), il romanzo si rifà alla realtà storica dei lapsi, cioè dei preti apostati, gli scivolati, quelli che non ce l’hanno fatta a sopportare le persecuzioni e hanno abiurato la loro fede.

Il cristianesimo fu introdotto in Giappone nel 1549 con l’arrivo del gesuita spagnolo Francesco Saverio († 1552), anche se sarà il gesuita italiano Alessandro Valignano († 1606) il vero artefice della missione nel Paese del Sol Levante. Purtroppo, dopo un promettente inizio, alla fine del 1614 viene pubblicato un editto di espulsione di tutti i missionari, accusati di essere venuti in Giappone «con il desiderio di diffondere una legge malvagia, (…) al fine di mutare il governo del Paese e prender possesso della terra» (C. R. BOXER, The Christian Century in Japan, 1549-1650, Berkeley 1951, 318). In quel momento si contavano in Giappone circa 300 mila fedeli, insieme a seminari, scuole, ospedali e un crescente clero locale. La repressione fu violenta e le torture inflitte a sacerdoti e cristiani furono disumane, cruente, efferate. Fra tutte, «la tortura della fossa» si rivelò uno strumento efficace per costringere i fedeli all’abiura: sospesi e legati a testa in giù, veniva loro praticato un taglio superficiale dietro le orecchie o sulla fronte perché morissero lentamente, a meno di abiurare. In tutto questo, di fronte all’agonia di molti cristiani c’è solo il silenzio. Il silenzio di Dio, «la sensazione che mentre gli uomini levano la loro voce angosciata − afferma Endō − Dio rimane silenzioso, a braccia conserte» (Silenzio, Milano 1982,  83). La vera lotta, la prima e più importante prova per i fedeli giapponesi e i missionari, è infatti accettare, sostenere e perdonare, nella più profonda solitudine, questo silenzio di Dio. «Per certi versi – dice il gesuita Sebastian Rodrigues – noi sacerdoti siamo un triste genere di uomini. Venuti al mondo per soccorrere l’umanità, nessun altro individuo è più squallidamente solo del prete che non è all’altezza del suo compito» (ivi, 36). Quando p. Rodrigues viene messo alle strette, non gli resta che calpestare il volto di Cristo. E quel volto che aveva «considerato la cosa più bella della sua vita», improvvisamente torna a parlagli, non più immaginato dietro le palpebre chiuse, ma vivo più che mai, reale, supplice: «Calpesta! Calpesta! […] Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini!». «Il prete posò il piede sul fumie [immagine in bassorilievo che raffigurava Cristo]. L’alba proruppe. E lontano il gallo cantò» (ivi, 203).

La scena finale del libro, sorprendente e di una densità teologica inestimabile, racconta il ritorno di Kichijiro, giapponese e cristiano della prima ora, ma che è stato indotto all’abiura e al tradimento, alla ricerca di un confessore. Più volte viene paragonato al Giuda dei Vangeli, perché per denaro, e paura, tradisce la fiducia di p. Rodrigues, causandone la cattura. Facile da disprezzare per via della sua debolezza e codardia, in realtà sarà proprio lui a riscattare la sorte del gesuita, non in virtù della sua forza, ma della sua paura. In un dialogo serrato tra i due, p. Rodrigues cerca di schernirsi, dicendo di non essere più padre, perché indegno dopo l’abiura. Kichijiro però incalza: «Lei può ancora ascoltarmi in confessione!» (ivi, 221), «La prego, ascolti la mia confessione». Entrambi avevano abiurato, entrambi avevano calpestato l’effige di Cristo, entrambi cercavano il perdono perché ancora credevano e amavano. «Poiché in questo Paese non c’è adesso nessun altro che possa ascoltare la tua confessione, lo farò io. […] Dirai le preghiere dopo la confessione. […] Và in pace!». In questo atto finale p. Rodrigues viene confermato nel suo sacerdozio, nonostante l’abiura. Riconosce di amare Cristo «in modo diverso da prima. Tutto quello che era accaduto fino a quel momento era stato necessario per portarlo a questo amore. “Persino ora – confida – sono l’ultimo prete in questa terra, ma Nostro Signore non ha taciuto. Anche se avesse taciuto, la mia vita fino a questo giorno avrebbe parlato di lui”» (ivi, 223). E «se i cristiani e il clero guardano a me come a una macchia nella storia della missione, non mi importa più» (ivi, 218). «La mia lotta – conclude – era con il cristianesimo, all’interno del mio stesso cuore» (ivi, 219).

Il regista Scorsese coglie del romanzo il nocciolo dei dilemmi che lo coinvolgono da sempre. Fino a che punto − torna a chiedersi − è lecito seguire Cristo, l’Amore incarnato di Dio, se così facendo noi rechiamo la sofferenza agli uomini? Vale di più la misericordia, che in fondo è il supremo comandamento trasmesso da Cristo ai suoi discepoli (Ama il prossimo tuo come te stesso), o la fedeltà alla sua Parola, che pure invita ad evangelizzare il mondo perché è Verità? «La questione non è solo teologica − afferma onestamente Gianluca Arnone nella sua recensione − perché tocca qualsiasi credo e ideologia». In più, è molto moderna, perché in filigrana evoca i principali nodi della Chiesa di Papa Francesco, tormentata al suo interno da analoghe questioni di natura etica e dottrinale (divorzio, eutanasia, aborto…). Questi giapponesi, che torturano e combattono i cristiani venuti dall’Europa, erano solo carnefici o piuttosto difendevano la loro identità culturale? Non è forse lo stesso problema sentito oggi in Occidente, nei rapporti tra le comunità autoctone e l’islam? Non basta continuare solo a invocare il multiculturalismo come panacea di tutti i mali. Silence è molto netto da questo punto di vista. C’è una scena emblematica in cui dei soldati giapponesi invitano i cristiani a sputare sul crocifisso e a dichiarare che la Beata Vergine Maria era una sgualdrina fino a calpestarne la sacra effige senza troppe cerimonie, ricordando loro che si tratta soltanto di immagine e non di quello che custodiscono dentro. Non comprendono però che per un cristiano quella effige non è solo un’immagine, così come l’Ostia non è soltanto un derivato del frumento. Per un cristiano Cristo è vivente, è persona, è quell’immagine, è quell’Ostia.

C’è una componente materiale nella religione cristiana che un orientale di osservanza buddista non capirà mai. Per questo una mediazione, che passi dal confinamento del cristianesimo in una sfera privata, intima, nascosta, pone seri interrogativi sulla sua consistenza. Assume allora un significato ambiguo quel silenzio perorato dal titolo: è la voce dell’abbandono di Dio, la dimensione dell’ascolto interiore, oppure il destino della cristianità in terra d’Oriente? «E’ positivo − scrive Arnone − che al cospetto di un discorso così interrogativo, scettico ed esistenziale, Scorsese mantenga un tono distaccato, algido, controllatissimo, senza le solite carrellate, le classiche zenitali e le proverbiali gimcane della mdp [cinepresa], senza cercare mai la scorciatoia, l’empatia, lo spettacolo, senza prendere per mano lo spettatore (che si ritrova così nella medesima situazione del gesuita “abbandonato” dal Signore). Silence non è un film immediato. Va meditato».

La Serata è atterrata con la consueta recita della Preghiera di Papa Francesco per i giovani (Sinodo 2018), la foto dell’équipe e il «cocktail» offerto da Pina Lista, ammiratrice e sostenitrice del Circolo. In sottofondo, il video musicale di Raffaele Falco: «Loda», proiettato da Ghenadi Cimino. «Loda… solamente loda; stai piangendo, loda; hai bisogno, loda; stai soffrendo, loda; non importa, loda; la tua lode invada il cielo». Una Serata sorprendente, con un film e un tema difficile da meditare e amare, ma facile da ammirare, stimare e coprire di complimenti…

Piotr Anzulewicz OFMConv

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Serve un webpastore…

Una Serata conviviale illuminante, quella focalizzata sul tema «I giovani: webpastore come tessitore di dialoghi», che si è svolta venerdì 20 aprile 2018, nel Salone «S. Elisabetta d’Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» a Catanzaro Lido. Con il claim «capire, cambiare, osare», siamo stati invitati a guardare a Internet con entusiasmo, fiducia e audacia, a riappropriarci del ruolo di animatori/webpastori di «comunità», che «si esprimono ormai attraverso tante voci scaturite dal mondo digitale», ad offrire a tutti − anche ai non credenti, ma sopratutto ai preadolescenti e agli adolescenti − «i segni necessari per riconoscere il Signore» (Benedetto XVI). Capire l’era presente (virtuale), cambiare se stessi − ed anche un po’ la nostra terra, per quanto incolta e poco fertile − e osare ad evangelizzare il grande “continente” cibernetico, in continua ed irrefrenabile espansione, dalle elevate potenzialità comunicative, dalla progressiva apertura sociale e dalla frequentazione sempre più crescente. Il web si configura ormai come un universo culturale informativo e formativo ed è di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari e sociali. Operare pastoralmente in questo cyberspazio è non solo opportuno, ma anche necessario.

Tutti abbiamo bisogno però di un cambiamento di mente e di cuore e di una conversione pastorale… E’ una sfida per tutti, dai presbiteri agli educatori: entrare in sintonia con i media digitali ed elevarli a strumenti al servizio dei valori alti, umanistici e cristici. È urgente formare gli evangelizzatori a saper capire il linguaggio dei “nativi digitali” e andare a cercarli nei “luoghi” e nelle “piazze” che frequentano: Facebook, il cybercaffè, i blog, i chat… A loro che si debba strizzare l’occhio, tessendo i dialoghi e prendendosi cura delle loro parole, vite, storie.

Serve un webpastore, e una Chiesa, che non abbia paura di entrare nella loro notte, capace di incontrarli nella loro strada, in grado di inserirsi nella loro conversazione. Serve un webpastore, e una Chiesa, che «sappia dialogare con quei discepoli, i quali, scappando da Gerusalemme, vagano senza meta, con il proprio disincanto, da soli, con la delusione di un cristianesimo ritenuto ormai terreno sterile, infecondo, incapace di generare senso». Serve un webpastore, e una Chiesa, capace di accendere il loro cuore e ricondurli a Gerusalemme. «Per questo è importante − ha detto Papa Francesco a Rio, il 27 luglio 2013, rivolgendosi ai vescovi brasiliani − promuovere e curare una formazione qualificata che crei persone capaci di scendere nella notte, senza essere invase dal buio e perdersi; di ascoltare l’illusione di tanti, senza lasciarsi sedurre; di accogliere le delusioni, senza disperarsi e precipitare nell’amarezza; di toccare la disintegrazione altrui, senza lasciarsi sciogliere e scomporsi nella propria identità». Ai tempi di Internet queste parole risuonano con una forza e un’efficacia intramontabili. La sfida è arricchire la vita che appella in rete, raggiunta con domande semplici, di significati profondi, di pietre preziose, di perle. Frate Francesco non si troverebbe male nel grande mercato del web. Dialogando, egli saprebbe vendere bene la propria merce: la perla che ha trovato tra i lebbrosi e nei Vangeli.

Una Serata ricca di spunti, suggestioni, stimoli, sollecitazioni… Colma di slanci per colonizzare vecchi comportamenti e reindirizzare linguaggi ammuffiti e barocchi, debitori di una retorica e di un’autoreferenzialità ormai ignote alla scattante società contemporanea. Corredata di due video musicali e di tre video-conferenze. Arricchita dalla presenza di un ospite d’eccezione: p. Vasyl Kulynyak, di Crotone, cappellano della comunità ucraina di rito bizantino presso l’arcidiocesi di Crotone-S. Severina. Resa saporita con la sottile focaccia di farina, spianata a mano, variamente condita e cotta nel forno a legna. A presto, con slancio della speranza.

Piotr Anzulewicz OFMConv

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Dal guerreggiare al benedire

«Il tema della 6ª Serata conviviale con ‘aperitivo’ − abbiamo scritto su Facebook del Circolo − aveva le stimmate dell’eccezionalità: I giovani: tecnolupi e lupo di Gubbio dal guerreggiare al benedire, con frate Francesco d’Assisi al centro. Ne avevano colto la portata persone a distanza, via e-mail e chat, e il modico, ma carissimo pubblico presente, tra cui alcuni soltanto per un veloce saluto e un gesto di benevolenza e amicizia. E’ rimasto un irrefrenabile desiderio di approfondimento e ripensamento…». Eccoci qui, su questo portale, come abbiamo promesso, per dire qualcosa in più.

Venerdì 6 aprile, dopo la visione del video musicale: «L’esercito del selfie» (feat. Lorenzo Fragola & Arisa) di Takakgi & Ketra e la presentazione del programma della Serata, alla piccola tavola rotonda ci siamo posti principalmente le due domande: 1. Come affrontare un branco aggressivo, offensivo e distruttivo di tecnolupi nella rete?; 2. Che aiuto potrebbe giungerci da frate Francesco? Domande ardue, impegnative e proiettive, che giustamente hanno dato vita a risposte multiple, plurime, soggettive. Domande che hanno spronato a pensare e a sentire…

Ask.fm

Internet − abbiamo detto − non è solo un ambiente di incontro, di amicizia, di cultura. E’ anche una palestra di scontro, di aggressività, di fake news… L’essere umano, a prescindere dalla rete, ha impulsi aggressivi che, se assecondati, lo portano a efferatezze e atrocità di cui la storia è triste testimone. Basti pensare alle barbarie jihadista o anche all’apparentemente più pulita guerra con i droni. Per stare vicini a casa nostra, casi di cronaca nera ci ricordano come le dinamiche comunicative etichettate come cyberbullismo abbiano invitato al suicidio una teenager dal nickname Amnesia. «Ucciditi», «Non sei normale, curati», «Nessuno ti vuole», la istigavano sconosciuti iscritti, come lei, ad Ask.fm, servizio di rete sociale basato su un’interazione “domanda-risposta”, in forma anonima, lanciato nel 2010 da Mark Terebin. «Dove pensi che vivrai fra cinque anni?» − chiedeva un utente senza nome. E lei: «Vivrò fra cinque anni?». «Cosa stai aspettando?». «Di morire». Altri agevolavano la sua dimensione: «Secondo me tu stai bene da sola… fai schifo come persona». Insulti anche davanti alle fotografie dei tagli alle braccia che lei giurava di essersi procurata: «Ti tagli solo per farti vedere», «Spero che uno di questi giorni taglierai la vena importantissima che c’è sul braccio e morirai». La ragazza, alla fine, si è suicidata davvero. E’ salita in cima a un albergo dismesso a Cittadella, nel padovano, e si è buttata giù. La Procura ha aperto un’inchiesta per stabilire se, appunto, si può parlare di istigazione al suicidio o di maltrattamento. Amnesia ha scritto un biglietto per la sua amatissima nonna. Erano parole di scusa «per avervi deluso» e di annuncio della morte, indicando il luogo. L’ha trovata sua madre, ai piedi di quel palazzone vuoto, di 10 piani. Da lontano ha visto la sua sagoma per terra e quando le si è avvicinata tremava così tanto da non stare più in piedi. Hanno dovuto ricoverarla.

Non è stato il primo caso che ha coinvolto i social Ask.fm. Hanna Smith, altra quattordicenne, si è anch’essa suicidata dopo espliciti inviti all’autolesionismo e ad ammazzarsi da parte di utenti anonimi, probabilmente conoscenti e compagni di scuola. Istigazioni da odiatori professionali, impuniti, irriferibili, concentrati di liquame verbale. E’ scoppiato uno scandalo a livello nazionale, sostenuto anche dal premier britannico David Cameron, tanto da avviare una campagna per la chiusura del sito, che si è difeso mettendo in atto meccanismi di moderazione, per frenare il cyberbullismo. La sorella di Hannah, Joanne, criticò pesantemente il sito, affermando che Ask.fm crea dipendenza. Il padre di Hannah, Dave, ha accusato i creatori di Ask.fm di omicidio colposo, chiedendosi quanti teenager si devono uccidere a causa degli abusi online prima che si faccia qualcosa.

Blue Whale

Alex Scicchitano, moderatore della nostra Serata, ha ricordato il caso di «Balenoterra azzurra» (Blue Whale). E’ un ‘gioco’ online, nato in Russia e approdato anche in Italia. Il suo scopo non è però ludico, ma tragico. Un fenomeno che circola dal febbraio 2017 e che il 10 maggio 2017, dopo un caso di suicidio a Livorno, è stato portato agli onori delle cronache da un servizio de Le Iene. Alex quindi ha spiegato brevemente il funzionamento di questo ‘gioco’. Esso invita gli adolescenti ad affrontare una serie di prove (assurde), come, ad esempio, guardare film dell’orrore per un intero giorno, incidersi sul corpo una balena azzurra, svegliarsi alle 4.20 del mattino, il tutto per 50 giorni. L’ultimo giorno il gioco prevede una provocazione mortale: trovare l’edificio più alto della città in cui si abita e saltare giù. Così gli ideatori di questa terribile “moda” invitano i partecipanti a togliersi la vita. I ragazzi, che si lasciano trasportare in questo vortice di orrore, prima di farla finita, lo dichiarano sui social con frasi piuttosto enigmatiche: «Questo mondo non è per noi», oppure: «Siamo figli di una generazione morta».

Secondo i redattori di The Submarine, giornale online di Milano, «Blue Whale non è nato dal nulla: le discussioni riguardanti il suicidio hanno sempre proliferato in angoli non moderati di Internet, dalle room di Soulseek [punto di riferimento e ritrovo per gli appassionati di musica underground] a chat su ICQ [messaggistica istantanea], forse perché la rete permette di mettere in contatto persone che farebbero fatica a comunicare in società. […] Capire questa relativa consuetudine è fondamentale per affrontare correttamente l’argomento: non è detto che tutti questi “gruppi della morte” abbiano una diretta influenza negativa − sono tantissimi i punti di supporto e di accoglienza, per persone che altrimenti sarebbero completamente sole. È il caso di piattaforme come T., un forum tedesco di persone con tendenze suicide dove molti utenti lavorano per impedire che queste persone si tolgano la vita. Al di là dell’aspetto dark – testi bianchi su fondo nero, accenti rossi, estetica edgy – il forum vorrebbe essere un posto sicuro, dove si possa parlare liberamente».

«Anche in un contesto deviante come questo − scrivono −, Blue Whale non è un gioco nato organicamente. Non è chiaro se a questo punto il gioco esistesse già, se sia nato per la prima volta su pagine di gossip e poi sia adottato dagli stessi gruppi della morte, o se nasca quasi come scherzo, come modo da parte degli amministratori di questi gruppi di rendersi misteriosi, affascinanti», e aggiungono: «Nelle scorse giornate sono arrivate notizie di suicidi teoricamente causati da Blue Whale anche in Spagna, Argentina e Brasile, ma nessuna evenienza del gioco è mai stata dimostrata con la solidità del caso russo. È difficilissimo − nel mare di informazioni sull’argomento che si possono trovare sul Darknet [rete virtuale privata nella quale gli utenti si connettono solamente con persone di cui si fidano] − distinguere tra casi di effettivi gruppi della morte, dove “curatori” uccidono persone attraverso abusi psicologici, e semplici casi di emuli, colpiti da effetto Werther». E’ comunque agghiacciante il fatto che tanti nostri ragazzi decidono di togliersi la vita. Una spiegazione ha provata a darla su Vita.it Daniela Cardini, docente di teoria e tecnica del linguaggio televisivo e di format all’Università IULM di Milano (Libera Università di Lingue e Comunicazione), in una intervista con la collega Anna Spena, commentando la serie Netflix «Tredici», che affronta proprio il tema del suicidio adolescenziale e del bullismo.

Ciccione, negro, ladra, terrorista

Si può davvero uccidere con le parole, la calunnia e l’ira? Sì, «anche le parole possono uccidere», avvertiva nel 2014 il claim dei manifesti che erano inviati a parrocchie, oratori e scuole e pubblicati sulle testate aderenti alla campagna di sensibilizzazione sul tema della lotta alla discriminazione, realizzata da Famiglia Cristiana, Avvenire e la Federazione Italiana Settimanali Cattolici (FISC), insieme all’Agenzia di pubblicità Armando Testa. Testate giornalistiche caratterizzate da percorsi diversi e da stili informativi differenti, ma portatrici di una stessa cultura di base e motivate da una condivisa vocazione a stare dalla parte delle vittime, degli sconfitti, degli emarginati, degli imperfetti, di quelli dei quali ‘si dice ogni male’. «Non cediamo alla parole che uccidono». Sono ‘proiettili’, sparati quasi sempre con allegra cattiveria e sfrontata leggerezza per far male, ferire, lasciare il segno, ammazzare la personalità. Il linguaggio utilizzato è quello tipico della comunicazione pubblicitaria, che contempla codici visivi e testuali particolarmente immediati e incisivi: si vedono alcuni volti “trafitti” da parole denigratorie, frutto di pregiudizi razziali o dell’ironia denigratoria, che assumono la forma di proiettili. Negro, terrorista, ladra e ciccione: quattro insulti che colpiscono chi li riceve come un colpo in testa. E il messaggio finale è: «No alla discriminazione. L’altro è come me». «È molto comune essere oggi, nel nostro Paese, oggetto di discriminazione − ha commentato don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana. − Basta essere immigrati o anziani, o donne. Se poi si è di religione musulmana, oppure obesi o di etnia rom, ancor di più. La cronaca è purtroppo piena di episodi che sembravano scherzi, ma sono tragedie. Un giornale, specie se cattolico, non può rimanere inerte, mettere in cronaca l’ennesimo episodio di bullismo, di discriminazione sessuale o di razzismo e passare ad altro. Vogliamo farlo come battaglia di civiltà per il nostro Paese. Vogliamo farlo con i nostri lettori. Migliori si può. Diciamolo a voce alta». Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, ha aggiunto: «Usiamo le parole come armi, e questo viene detto con esplosiva efficacia attraverso le immagini costruite dall’Armando Testa». Infine, Francesco Zanotti, presidente della FISC, ha affermato: «La campagna realizzata assieme ha il grande merito di fare comprendere con immediatezza la potenza della parola. Parole come pallottole: raggiungono la persona e la distruggono (…). A questo pericolo si può rispondere solo con la responsabilità».

Avital Ronell, scrittrice e filosofa statunitense, ha parlato di «testi assassini», tra cui I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe che avrebbe scatenato un’ondata di suicidi in tutta Europa. Claude Lévi-Strauss († 2009), antropologo, psicologo e filosofo francese, ha parlato invece di «casi attestati in parecchie regioni del mondo, di morte per scongiuro o sortilegio». Le nostre parole sono importanti, ma esse sono l’esito di un pensiero e di una cultura. E quando prevale la cultura dello scarto e del potere, della denigrazione e della violenza, diventano, appunto, proiettili e «possono uccidere». «Parlar male di qualcuno − ha ricordato anche Papa Francesco, il 16 febbraio 2014, all’Angelus, rileggendo il 5° comandamento e riflettendo su quanto Gesù stesso ha spiegato nel Discorso della Montagna − equivale a “venderlo”, come fece Giuda con Gesù. […] Pertanto, non solo non bisogna attentare alla vita del prossimo, ma neppure riversare su di lui il veleno dell’ira e colpirlo con la calunnia. Gesù propone a chi lo segue la perfezione dell’amore: un amore la cui unica misura è di non avere misura, di andare oltre ogni calcolo». La rete può diventare fonte di rabbia, frustrazione, aggressione, violenza. «Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante Internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale − leggiamo nella recente Esortazione apostolica Gaudete et exultate, resa pubblica il 9 aprile scorso. − Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. E’ significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: “Non dire falsa testimonianza”, e si distrugga l’immagine altrui senza pietà. Lì si manifesta senza alcun controllo che la lingua è “il mondo del male” e “incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna” (Gc 3,6)» (n. 115). Preoccupato soprattutto per i giovani esposti a «uno zapping costante», il Papa ha affermato inoltre che «le forme di comunicazione rapida possono essere un fattore di stordimento che si porta via tutto il nostro tempo e ci allontana dalla carne sofferente dei fratelli» (n. 108).

Occhio per occhio

Internet − grazie alle condizioni di distanza fisica e di mancanza di conseguenze dirette, soprattutto in contesti pubblici come forum e blog − permette una grande disinibizione comportamentale nella ritorsione di pari grado: occhio per occhio. Queste condizioni facilitano l’escalation fino a situazioni impensabili nella vita reale. Le parole diventano raffiche sparate da killer ben protetti nella pancia dell’anonimato. Mirano a togliere autostima e soggiogare, spesso nell’indifferenza e nella paura di chi disapprova, ma non osa opporsi. A Bologna più di 200 ragazzini si sono dati appuntamento ai giardini per un macho confronto a mani nude. I due gruppi dei “Bolo-bene” e dei “Bolo-feccia” si sono picchiati selvaggiamente. Tutti in salsa social. A giudicare dai post su Ask.fm, rivolti ad Amnesia, il livello di aggressività verbale rientra addirittura nei profili della denuncia penale. Emerge non solo un vissuto professionale, oltre che educativo e amicale, ma anche una subcultura dell’odio. A questo proposito, Giovanni Arduino e Loredana Lipperini, nella loro ricerca (Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del web, Milano 2013), evidenziano un inquietante fenomeno: gli odiatori (hater). Sono di fatto coetanei, ma non solo. Alcuni ambiscono a diventare blogstar, a suon di critiche distruttive e a prescindere da persone o da temi bersaglio, incuranti degli effetti delle loro parole di pura rabbia. Paolo Floretta, francescano, psicologo e psicoterapeuta, nel suo libro Le reti di Francesco. Per una tecnologia dello spirito e una cyberspiritualità e webpastorale francescane (Padova 2015), li definisce membri impauriti di un tecnobranco che sentono di esistere solo se si percepiscono sul rovente filo della violenza, scaricata addosso senza arte né parte alla vittima di turno, perché annusata come selvaggina fragile e succulenta per una carneficina verbale, fino a esiti tragici. Un branco di tecnolupi, alla deriva di se stessi, alla fine vittime della propria cieca e devastante aggressività, senza altri fini se non se stessa. Sono casi estremi, ma che confermano come, in certi contesti, le parole possano produrre morte. «Oggi non dobbiamo nasconderci che la rete può essere uno di questi contesti, dove il linguaggio ha un potere enorme. Cominciare a comprenderlo è il primo passo per poter elaborare strumenti culturali e giuridici di difesa».

Gubbio e il suo lupo

Come affrontare allora i tecnolupi/cyberbulli, per altro sfuggenti? E’ una domanda difficile. Qualche spunto ci ha offerto un episodio riportato dai Fioretti (Fior 21: FF 1852). Non lo abbiamo letto, ma ascoltato, guardando il video musicale Il lupo di Gubbio di Angelo Branduardi, tratto dal suo CD edito nel 2000 dal titolo L’infinitamente piccolo, dedicato alla vita di frate Francesco.

In questo episodio c’è qualcosa che travalica il tempo e lo spazio e per questo è di casa in tutti gli ambienti, incluso quello virtuale. «Gubbio e il suo lupo − afferma Floretta − sono la metafora di una ritrovata relazione educativa» (p. 59). E frate Francesco, che da guerriero si è trasformato a vessillifero della pace senza tempo, è un modello di mediazione pedagogica. Motivato dal suo amore per la gente di Gubbio e contando sulla sua fiducia in Dio, è andato incontro al lupo insieme ai suoi compagni. Non si è mosso isolato, ma è partito da una solida rete di relazioni. E’ stato proattivo: è lui che ha fatto il primo passo e di fronte alla bocca aggressiva del lupo si è posto da una prospettiva di bene per tutti. Gli ha offerto la pace, il perdono e la promessa che non sarà più perseguitato, ma mantenuto a vita, riconoscendo che le sue malefatte erano causate dalla fame o dai suoi bisogni vitali senza cura. Il momento clou: il patto di pace tra la gente e il lupo, quasi sotto le spoglie di fiaba, fatto di dialogo, rispetto, delicatezza, cure amorose, e dialogo con Dio. Tutto ha ritrovato il proprio senso e, grazie alle desistenza del perdono dei cittadini, si è giunto a un reciproco riconoscimento, base per un convivenza stabile e sana. «Posso aggiungere − confida Branduardi − che, andando a visitare la cittadina di Gubbio, è possibile vedere la tomba del lupo. I cittadini, dopo il famoso dialogo tra lui e Francesco, si affezionarono così tanto da seppellirlo con una sorta di funerale».

Per Amnesia e il suo entourage le cose sono andate, purtroppo, diversamente. Nessuno aveva il coraggio di incontrare su Ask il famelico e aggressivo lupo che abitava dentro gli adolescenti, per lo più tra i 13 e i 16 anni. Indisturbati e mascherati dietro l’anonimato, si parlavano per sparlarsi, offendersi, rinfacciarsi, minacciare, istigare a morire, sfogare la propria rabbia.

Francesco in mezzo alla ‘flame war’

Anche frate Francesco ha avuto a che fare con la rabbia degli altri, a partire da quella di suo padre, Pietro Bernardone, quando lo cercava a San Damiano e lo perseguitava, fino a percuoterlo e a maledirlo sulla piazza (cfr. 2 Cel 12: FF 596-598). Con parole velenose lo investiva pure Angelo, suo fratello. Come gestì la flame war dei suoi familiari?

Dal racconto di frate Tommaso Celano non emerge nessuna ritorsione plateale, nessuna escalation aggressiva, nessuna flame war (guerra di parole offensive, opprimenti ed ostili). Al contrario, Francesco creò una sua rete sociale di salvataggio psicologico: coinvolse un uomo umile e semplice perché, come un padre vicario, lo benedicesse dopo ogni colluvie d’insulti. Un social network riparativo, non un cyberbranco, con cui attaccare e contrattaccare il designato. Nessuna fuga da un vis-à-vis, ma la decisione imprevedibile e spiazzante di modificare totalmente le relazioni: la scelta di un altro padre, per riscrivere da zero la propria vita. Invece di fomentare una sterile logomachia, decise chi essere da quel momento in poi. Si dette la possibilità di rinnovare la propria identità, ampliandola, e di restituire i propri vestiti, ormai fonti di inutili odi e malintesi.

Il Santo d’Assisi ha avuto a che fare con l’aggressività anche in altri contesti. Ne sono nate pagine che sfidano i secoli per la loro attualità e profondità, tanto da offrire criteri educativi per l’ambiente della rete. Il capitolo XI della Regola non bollata ne dà un chiaro saggio: «Tutti i frati si guardino dal calunniare qualcuno, ed evitino le dispute di parole, anzi, cerchino di conservare il silenzio, ogniqualvolta il Signore darà loro questa grazia. E non litighino tra loro, né con gli altri, ma procurino di rispondere con umiltà, dicendo: Siamo servi inutili. E non si adirino […]. E non oltraggino nessuno; non mormorino, non calunnino gli altri […]. Non giudichino, non condannino» (Rnb XI 1-2, 4.7-8.10: FF 36-37).

Manifesto dell’anti-branco

Non è un solito condensato di buone maniere, ma un manifesto dell’anti-branco, dell’anti-stalking, dell’anti-calunnia e di ogni maldicenza distruttiva, un presidio comunitario, di rete, a difesa dell’inviolabile dignità altrui, quando anche il fratello fosse “beccato” in flagranza di peccato, ancorché piccolo e socialmente accettabile. Un cordone sanitario attorno all’infernale moltiplicarsi della pubblicità del male, che oggi viene amplificata dalla grancassa dei social network. Questo emerge in modo ancora più chiaro nelle Ammonizioni, che appartengono alla piena maturità di frate Francesco, tanto il pensiero vi appare denso e coerente, alimentato da una duplice fonte: ascolto orante della Parola di Dio e contemplazione amorosa e sofferta della vita cristiana e religiosa, un vero e proprio cantico dei puri ci cuore, che, dopo essersi evangelicamente svuotati di ogni culto di se stessi, accettano persecuzioni e ingiurie, contrarietà e correzioni, disponendosi all’obbedienza caritativa e ad un amore compassionevole e leale verso i fratelli, per poi restituire tutto al Signore Dio, fonte di ogni bene. «Non lasciarsi guastare a causa del peccato altrui. Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere, eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona peccasse e, a motivo di tale peccato, il servo di Dio, non più guidato dalla carità, ne prendesse turbamento e ira, accumula per sé come un tesoro quella colpa. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive nulla di proprio» (Am 11: FF 160). E’ libero anche dal peccato dell’altro. Non capitalizza l’errore altrui per sfogare la propria aggressività, quella narcisista e perbenista. Non si scandalizza né si turba per le debolezze dell’umanità per risplendere e gloriarsi alle spalle dell’altro. Non sbandiera i vizi degli altri per attirare riconoscimento per sé. Altrimenti sarebbe un patetico parassitismo del male che avvelena il fragile e inconsistente io, incapace di ricordare il credito di rispetto, di fiducia e di misericordia cui l’altro ha diritto d’ufficio.

Una Serata eccezionale, davvero. Frate Francesco ci ha ricordato che, nonostante la nostra pochezza e la nostra povertà, siamo chiamati ad essere strumenti e segni dell’amore caldo, accogliente e benedicente. Solo questo amore è creativo e fecondo, capace di costruire una cultura dell’incontro e del rispetto, all’altezza dell’ideale dell’uomo. C’è quindi da chiedersi: se Amnesia fosse stata accolta con l’atteggiamento di frate Francesco sarebbe ancora tra noi?

Piotr Anzulewicz OFMConv

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Edu-care nell’era digitale…

«I giovani: categoria ‘a rischio’ in una società plurale» è stato il tema della 1ª Serata conviviale con «aperitivo» della 6ª edizione del WikiCircolo dal motto: «I giovani con la ‘sorella’-‘madre’ Terra», ispirata al documento preparatorio del prossimo Sinodo dei vescovi: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», ma anche all’enciclica Laudato si’ di papa Francesco e alla preghiera-inno Cantico delle creature di frate Francesco, ed aperta gratuitamente a tutti: soci, sostenitori, amici. La Serata – 109ª di seguito, con decorrenza dal 10 gennaio 2014 – è sfociata venerdì 12 gennaio 2018, nel Salone «S. Elisabetta d’Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido.

E’ ora di tornare a questa Serata di debutto, “pensante”, ma non pesante, che si è impressa nella nostra mente e ci ha permesso di tracciare il profilo dei giovani ‘a rischio’, sullo sfondo della società ormai plurale, complessa, ‘liquida’, in costante mutamento, e ascoltare il loro SOS (ingl. «Save Our Souls» = «Salvate le nostre anime»). Ad aprirla, l’inno ufficiale della 34ª Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) che si terrà a Panamá dal 22 al 27 gennaio 2019, scritto e composto con i ritmi tipici della cultura panamense da Abdiel Jiménez, catechista e salmista della parrocchia «Cristo Risuscitato» di San Miguelito, autore di vari componimenti liturgici e membro di diversi cori che fanno capo alla Facoltà di Scienze Religiose dell’Università Cattolica «Santa María La Antigua».

Dopo le parole di benvenuto e la presentazione del programma da parte di Teresa Cona, segretaria del Circolo e curatrice dell’edizione insieme a Alex Scicchitano e Luigi Cimino, il sottoscritto, a mo’ di preludio, ha pensato di polarizzare l’attenzione dei presenti sulle recenti problematiche derivate dalla «full immersion» dei ragazzi nella «rete» dei nuovi media che sono esplosi in questi ultimi tempi, diventando essi stessi gli “educatori sottotraccia”, in aperta concorrenza con i principali “titolari” della formazione: genitori, insegnanti, operatori parrocchiali… Partendo dall’attuale situazione, in cui i preadolescenti manifestano grandi competenze sul piano tecnologico, abbinate a un preoccupante analfabetismo sugli effetti collaterali dei moderni «device», di cui sono profondamente innamorati, ha offerto alcune indicazioni dal risvolto educativo.

In un mondo di galoppante evoluzione, dominato dal web, che esalta ogni giorno di più il potere fascinoso dei social, rilasciando l’illusione di una facile e vasta popolarità e visibilità a colpi di selfielikefollower, video di YouTube sul tablet, chat, messaggi, i ragazzi hanno bisogno di una intelligente contro-proposta educativa, fatta di relazioni vere, reali, amicali empatiche. I «nativi digitali» (è una espressione che viene applicata ai ragazzi che sono cresciuti con le tecnologie digitali come Internet, telefoni cellulari e mp3), quando usano un social network per comunicare, sono fermamente convinti di avere dall’altra parte dei veri amici, e non degli amici virtuali, di cui fidarsi ciecamente. Compito dei «migranti digitali» (i genitori e coloro che sono cresciuti prima delle tecnologie digitali e le hanno adottate in un secondo tempo) «non è quello di negare la validità di questo nuovo modo di relazionarsi o addirittura proibirla quanto, senza giudicare né demonizzare gli strumenti in uso oggi, aiutare i nativi a non trascurare l’importanza degli altri codici di comunicazione. […] Sarebbe utile rispettare una sorta di “contratto” al proprio figlio, nel quale ci si accorda sul tempo da dedicare al computer, stimolando in lui la consapevolezza delle tante ore trascorse davanti allo schermo. Porre dei chiari limiti è utile perché può aiutare l’adolescente a quantificare il tempo che dedica a queste attività, e conseguentemente aiutarlo a percepirne, egli stesso, gli eccessi. Le regole circa l’utilizzo di Internet dovrebbero essere oggetto di dialogo e negoziazione e rappresentare occasioni per parlare e discutere con i figli. Possiamo così confrontarci con loro anche sui Siti che è opportuno visitare e su quelli a cui invece non devono accedere» (A. Ricci−Z. Formella, Educare insieme nell’era digitale, Torino 2018, 20-21). Secondo gli autori del libro appena citato [il primo è psicologo-psicoterapeuta, analista transazionale, professore invitato presso l’Istituto di Psicologia dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma e docente della Scuola Superiore di specializzazione in psicologia clinica presso il medesimo ateneo; l’altro è sacerdote salesiano, vice-decano della Facoltà di Scienze delle’Educazione della stessa Università, dove è professore ordinario della cattedra di psicologia dell’educazione, da anni impegnato in attività di formazione nel campo della psicologia dell’educazione, con particolare attenzione agli aspetti di prevenzione del disagio giovanile e della promozione del benessere socio-relazionale), «l’ideale sarebbe non concedere il cellulare personale prima dei 12 anni e fino ai 14 anni lasciarlo usare solo in caso di necessità […]. Vietarne assolutamente l’uso mentre fanno i compiti e farlo spegnere durante la notte. […] Crescere ed educare i figli vuol dire fornire un conteso favorevole, fatto di relazioni affettive e regolative capaci di sostenere e accompagnare il cambiamento e lo sviluppo dei figli. Più promuoviamo intorno al bambino un ambiente sano, più avremo a che fare con un bambino sano» (ivi, 24-25).

Alla tavola rotonda sono intervenuti: don Vincenzo Agosto e Alex Scicchitano. Il primo, esperto in psicologia e pedagogia, ha tenuto un brillantissimo intervento sui principi base dell’educazione che parte dalla famiglia, spiegando come sia funzionale un sistema educativo di tipo piramidale, ponendo alla base l’importanza di quelle che sono le priorità fondamentali al fine di una corretta crescita del bambino, che si proiettano in quelle che diverranno in seguito le giuste scelte dell’adolescente e plasmeranno positivamente e/o negativamente la sua vita. «Potremmo paragonare − ha detto − la crescita di un individuo, dal punto di vista psicologico, alla costruzione di un edificio: sono necessarie anzitutto le fondamenta (bisogno d’amore nei primi mesi), poi i pilastri (bisogno di competenza, di affetto, di sicurezza, di libertà, di piacere nei primi anni) e infine le mura portanti (valori e modelli di riferimento a partire dall’adolescenza). Oggi spesso possono mancare alcuni di questi elementi. Soprattutto l’assenza di valori e modelli credibili o il fatto che non ci sia una gerarchia fra di essi (e dunque sono tutti sullo stesso piano, strumentali a qualcos’altro), può portare l’individuo a crescere con grandi carenze, che spesso vengono colmate in modo compensatorio prendendo altre vie. Risulta importante sul piano pedagogico essere presenti positivamente nella vita dei bambini, venendo incontro a tutti i loro bisogni fondamentali, educandoli con dolcezza e fermezza assieme, dedicando loro del tempo adeguato, offrendo regole (che sono come gli argini di un fiume) – poche, chiare, motivate, alla portata dell’età, incarnate dai genitori ed educatori e con conseguenze in caso di non osservanza – e presentando valori di riferimento incarnati in modelli credibili e alla loro portata». Il secondo, studente in sociologia, ha prestato attenzione agli studi e alle ricerche che filosofi e sociologi hanno condotto a partire da tempi remoti fino ad arrivare a nostri giorni, esponendo importanti cambiamenti che hanno caratterizzato l’educazione giovanile, portando a volte ‘i giovani’, appunto, alla perdita d’identità, sfociando in depressioni, colmate nel peggiore dei casi con assurde dipendenze, che li allontanano sempre di più dalla speranza che c’è una possibilità nel cambiamento personale, per raggiungere quegli obbiettivi, che anche un’istituzione sbagliata vuole soffocare.

Siamo tutti, e in modo particolare i nostri ragazzi, immersi nel mondo che non è più dicotomico (reale o virtuale), ma unico con le due dimensioni (reale e virtuale) che a volte co-esistono e a volte si sovrappongono e/o si sostituiscono. Tanti sono i vantaggi e le nuove opportunità che scaturiscono dal fatto di potersi connettere con il mondo virtuale. Tanti sono anche gli svantaggi e i rischi che scaturiscono dall’uso abusivo o eccessivo della rete.

Bohdan T. Woronowicz, psichiatra polacco, elenca alcuni: di tipo fisico (difetti della spina dorsale, mancanza di esercizio fisico e di riposo attivo, sovrappeso ecc.); di tipo psichico (scaricare le tensioni in modo innaturale, aggressività, esposizione alla violenza, accesso alle “informazioni non-sane”, abuso/dipendenza); di tipo sociale (perdita dei legami familiari, trascuratezza dello studio, confusione del confine tra realtà e finzione, isolamento, diminuzione dei contatti, impoverimento del linguaggio, dimostrazione di comportamenti non etici, immunizzazione al male) (cfr. Testy i kwestionariusze wykorzystywane w diagnozowaniu problemowego korzystania z komputera/Internetu [consultato: 4.04.2018]).

Sonia Livingstone, professoressa di psicologia sociale a Londra, segnala invece la seguente lista dei rischi che si possono incontrare nella rete: contenuti illegali, pedofilia, adescamento da parte di sconosciuti, contenuti violenti o sessualmente disturbanti, contenuti offensivi e dannosi, materiali a sfondo razzista, pubblicità e marketing occulto, disinformazione o informazione tendenziosa, abuso di informazioni e dati personali, bullismo/molestie sessuali, gioco d’azzardo, truffe, phishing, autolesionismo (suicidio, anoressia), invasione della privacy, attività illegali (hacking, violazione del copyright) (cfr. Ragazzi online. Crescere con Internet nella società digitale, Milano 2009).

L’essere genitori 2.0, ed educatori, nell’era digitale e nel mondo plurale, è un’impresa ardua, ma possibile. In fin dei conti, «l’educazione è cosa di cuore» (don G. Bosco). Se dividiamo in due il termine «edu-care», vi troviamo la parola inglese «care» che vuol dire prendersi cura, avere a cuore, appassionarsi all’altro, favorirne il suo ben-esserci, consentire all’altro di mostrarci le sue esigenze, accogliere quello che dice di sé, dare una forma migliore al suo essere, interpretare le sue necessità, senza mai assecondare un bisogno non buono. Sono azioni che hanno a che fare con la funzione genitoriale che è quella di tirar fuori (e-ducere) ciò che si ha di unico ed irripetibile dentro di sé, cioè portare a maturazione ciò che è iscritto nella personale umanità di ciascuno per dare ad esso sviluppo e portare a maturazione, garantendo al contempo quella presenza rassicurante e amorevole di cui si ha bisogno per sentirsi accettato e guidato. In effetti, l’amore genitoriale che educa è volto a far sì che l’altro diventi il meglio di ciò che può diventare.

Temi “caldi”, incalzanti e cari anche a questa edizione del Wiki– e CineCircolo, per un pensare plurale e pausato. Rappresentano però una zona di vere e proprie sabbie mobili sulle quali non è facile muoversi senza “piloti”. Insieme però possiamo avventurarsi e opportunamente affrontarli in cerca di una terra “ferma” abitata da amici autentici e da adulti validi, più ricca di senso, più libera, più buona, bella e vera, più attraente e umanizzante, senza essere imposta, pretesa o predicata a vuoto.

La Serata si è conclusa con la recita della Preghiera per i giovani di Papa Francesco, seguita dal video musicale: «Bienaventurados los misericordiosos…» (Inno della GMG Cracovia 2016), dalla foto di gruppo e dal consueto «aperitivo», e… con l’umile e generoso coraggio nell’ospitare non soltanto i nostri naufragi e i nostri dubbi che, se accolti, ci impediscono di barricarci dietro certezze autistiche, ma anche i tanti «briganti di Monte Casale» (cfr. I Fioretti, 26: FF 1858) che girano per il web e le tante periferie esistenziali che brancolano per la rete, nello stile di frate Francesco che, riconciliato in un laboratorio interiore, tutto offline, faceva rete con tutti: dalle creature, “photoshoppate” a modo suo, con i filtri del suo cuore, al Creatore.

Piotr Anzulewicz OFMConv

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Connessi e altrove, ma orfani e solitari

«I giovani: connessi, ma solitari e orfani»: è il titolo della 3ª Serata conviviale con «aperitivo», che si è tenuta venerdì 16 febbraio 2018, presso il Salone «S. Elisabetta d’Ungheria» al lato destro della chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido. La Serata − 113ª di seguito − ha avuto inizio con il video musicale «Jesus Christ, You are my Life», le cui immagini fecero il giro del mondo in occasione del Grande Giubileo 2000, quando l’infinita moltitudine di ragazzi e ragazze, insieme a Giovanni Paolo II, danzò, gongolò ed esultò di gioia, cantando quella canzone scritta da mons. Marco Frisina, divenuta in seguito l’inno di tutti i raduni denominati «Giornate Mondiali della Gioventù», incluso quell’ultimo a Cracovia (26.07.2016).

Dopo le gentili parole di benvenuto e la vivace presentazione del programma della Serata, da parte di Teresa Cona, segretaria del Circolo, l’attenzione dei presenti è stata focalizzata sull’«aria» che respirano i “ragazzi 2.0”, quelli che nascono con i “dispositivi” elettronici “incorporati”, abilissimi utenti della comunicazione online, definiti all’inizio del Duemila nativi digitali (born digital). In seguito alla strepitosa diffusione dei nuovi media, si è passati dall‘homo sapiens, tutto carta e penna, all’homo videns e zapppiens, tutto telecomando e video “incorporati”, appunto, fino all’attuale “versione” dell’homo 2.0, tutto web e touch screen. L’homo zappiens è «una nuova generazione che […] è cresciuta usando molteplici dispositivi tecnologici, sin dalla prima infanzia: il telecomando per la tv, il mouse per computer, il minidisc, e, più recentemente, il cellulare, l’iPod e il lettore mp3. Questi dispositivi hanno permesso ai bambini di oggi [i preadolescenti] di mantenere il controllo di flussi di informazioni, discontinue e in eccesso, di entrare in comunicazione virtuale face to face o con comunità online, di comunicare e collaborare in rete in base alle loro esigenze» (W.Veen-B, Vrakking, Homo zappiens. Crescere nell’era digitale, Roma 2010, 11). Secondo Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante, che si è resa nota al grande pubblico con il suo primo romanzo La gallina volante, ci troviamo probabilmente in presenza di una nuova evoluzione della specie umana che potrebbe determinare «un vero e proprio cambiamento antropologico: si stanno acquisendo nuove abilità mentali, dal pensiero nonsequenziale al multitasking» (P. Mastroccola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Parma 2011, 80).

In questi effervescenti anni della rivoluzione digitale spuntano come funghi anche nuovi Siti e blog religiosi o video-omelie che cercano di raccontare la fede nell’immensa cattedrale virtuale che è il web. Purtroppo, nel far West dell’etere, si incontrano spesso elaborazioni discutibili e l’evangelizzazione online non sempre viene declinata in modo intelligente e professionale. Impreparazione, nonchalance e pregiudizi impediscono di cogliere le opportunità che i diversi “applicativi” possono offrire nella comunicazione della fede ai ragazzi, appassionati ed attivi utenti delle moderne tecnologie. A far passare il messaggio, non sono ormai sufficienti la “buona volontà” e l’entusiasmo apostolico. Un catechista dell’ultima generazione non può limitarsi a comunicare la “buona Novella” soltanto a parole scritte, lette o pronunciate. I “ragazzi 2.0”, “video-pc-telefonino-dipendenti”, cresciuti a brioches e web, hanno bisogno di immagini e suoni per essere “risvegliati” e catturati. In caso contrario, non vengono intercettati perché i codici e la metodologia utilizzati risultano incomprensibili e inespressivi e le relative mediazioni non diventano interessanti. «Non sarà anche questo uno dei motivi − si domanda Valerio Bocci, autore di innovativi sussidi catechistici − per cui, al culmine dell’iniziazione cristiana con la celebrazione della Cresima, si consuma “il congedo illimitato e definitivo” dalla comunità stessa?» (V. Bocci, Comunicare la fede ai ragazzi 2.0. Una proposta di catechesi comunic-ativa, Torino 2012, 9). C’è spazio per tutti, ma il problema è occuparlo intelligentemente. “Ieri”, il passato, la tradizione rappresentano un tabù per i “ragazzi 2.0”, ancorati profondamente al “qui-ora”. E’ fondamentale presentare iI messaggio di “ieri” con la sensibilità educativa e comunicativa di “oggi”, in modo più interattivo e multimediale, in cui i ragazzi diventano protagonisti, in un contesto ricco di proposte dentro la parrocchia e in collegamento con le agenzie educative (genitori, famiglia, scuola, gruppo dei pari…).

Non è mai facile educare i ragazzi. Qui non funziona il “copia e incolla”. Non bastano neanche le diffidenze e i caveat [intimazioni] nei confronti dei tecnomondi. I contatti digitali e le realtà virtuali lentamente “formattano” non solo il cervello, ma anche il cuore. I giovanissimi vivono sul web (il 93%). In rete si fanno una cultura, coltivano rapporti, incontrano anche pericoli: adulti malintenzionati, gioco d’azzardo (il 13% lo ha già fatto; il 32% lo farebbe), sesso online ed anche offline, divulgazione improvvida di dati personali, foto incluse, imbastendo un nuovo italiano 2.0, l’e-italiano digitale, in cerca di efficacia e velocità comunicativa. «Il tutto subendo e involontariamente nutrendo un digital divide generazionale − separati in casa, è il caso di dirlo − con il mondo adulto, ansioso e impreparato» (P. Floretta, Le reti di Francesco. Per una tecnologia dello spirito e una cyberspiritualità e webpastorale francescane, Padova 2015, 12).

La sfida, in tale prospettiva, alza di parecchio l’asticella. Soprattutto i genitori devono recuperare il vuoto di autorevolezza, se vogliono incidere educativamente nelle abitudini dei figli “sempre connessi” e “sempre altrove”. In un mondo che esalta il potere dei social, «rilasciando l’illusione di una facile e vasta popolarità e visibilità a colpi di selfie, video, messaggi, i ragazzi − afferma Valerio Bocci − hanno bisogno di una intelligente contro-proposta fatta di relazioni vere, di tempo condiviso a parlarsi, a computer e telefonini spenti. Tempo, ascolto, dialogo, confronto: sono gli ingredienti della terapia che ancora può contrastare la “solitudine”, una delle “malattie” in galoppante ascesa nel quotidiano dei ragazzi, illusi e delusi dalle promesse non mantenute dall’overdose delle ore passate in connessione continua con gli amici di Facebook, Instagram, Snapchat…» (A. Ricci-Z. Formella, Educare insieme nell’era digitale, Torino 2018, 4).

L’argomento della Serata ha sollevato tanti temi e ha fornito tanti «input»: le identità mascherate in Internet, l’aggressività online, il conflitto e la collaborazione nei gruppi online, l’altruismo e la solidarietà nella rete, le differenze di genere in Internet, l’educazione alla vita su web, la rete come un mercato, gli amori, le amicizie e i follower… C’è ne per molte edizioni del WikiCircolo. Il tema: «I ‘ragazzi fantasma’, soli e isolati dalla società», previsto per venerdì 26 gennaio, ci è sfuggito e la 2ª Serata conviviale è stata sospesa: gli amici del Circolo sono stati invitati a dare l’ultimo abbraccio a Peppino Frontera, improvvisamente portato via da Sorella Morte.

Torniamo comunque alla tavola rotonda di questa Serata, con due giovani laureandi in sociologia: Clarissa Errigo e Alex Scicchitano. Ci hanno sorpreso, a dir poco, commentando l’articolo: «Hikikomori, è boom anche in Italia: migliaia di giovani si recludono in casa». Hanno tra i 14 e i 25 anni, non studiano né lavorano, non hanno amici, trascorrono gran parte della giornata nella loro camera, a stento parlano con genitori e parenti, dormono durante il giorno e vivono di notte, si rifugiano tra i meandri della rete e dei social network con profili fittizi, unico contatto con la società che hanno abbandonato. «Li chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte” − scrive Matteo Zorzoli, autore dell’articolo.− Nel Paese del Sol Levante hanno da poco raggiunto la preoccupante cifra di un milione di casi, ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi». Infatti, è «un male che affligge tutte le economie sviluppate – spiega Marco Crepaldi, fondatore di Hikikomori Italia, la prima associazione nazionale di informazione e supporto sul tema. – Le aspettative di realizzazione sociale sono una spada di Damocle per tutte le nuove generazioni degli anni Duemila: c’è chi riesce a sopportare la pressione della competizione scolastica e lavorativa e chi, invece, molla tutto e decide di auto-escludersi». Le ultime stime parlano di migliaia di casi italiani, un esercito di reclusi che chiede aiuto.

Depressed boy under the bed

Si tratta di un fenomeno sociale dai contorni ancora poco chiari. Spesso viene confuso con l’inettitudine e la mancanza di iniziativa dei giovani. Un equivoco che ha trovato terreno fertile nel dibattito politico, legislatura dopo legislatura, fornendo stereotipi come “bamboccioni”, definizione coniata nel 2007, o “giovani italiani choosy” (schizzinosi), fino ad arrivare al mare magnum dell’acronimo NEET, i ragazzi “senza studio né lavoro”, che secondo un sondaggio dell’Università Cattolica del 2017 sarebbero 2 milioni in tutta la Penisola italica. Il disagio «molto spesso viene confuso con sindromi depressive e nei peggiori casi al ragazzo viene affibbiata l’etichetta della dipendenza da Internet – spiega Crepaldi. – Una diagnosi di questo genere normalmente porta all’allontanamento forzato da qualsiasi dispositivo elettronico, eliminando, di fatto, l’unica fonte di comunicazione con il mondo esterno per il malato: una condanna per un ragazzo hikikomori». Secondo Crepaldi, la frustrazione scolastica è la prima causa o cosiddetto fattore precipitante del fenomeno di isolamento. Un brutto voto a scuola per esempio, un avvenimento innocuo agli occhi delle altre persone, ma che, contestualizzato all’interno di un quadro psicologico fragile e vulnerabile, assume un’importanza estremamente rilevante. Il ragazzo inizia a saltare giorni di scuola utilizzando scuse di qualsiasi genere, abbandona le attività sportive, inverte i ritmi sonno-veglia e si dedica a monotoni appuntamenti solitari come il consumo sregolato di serie tv e videogames. È fondamentale intervenire proprio in questa prima fase del disturbo, cioè alla comparsa dei primi campanelli d’allarme. In questa fase i genitori, gli educatori e gli insegnanti rivestono un ruolo cruciale, per evitare il passaggio alla fase più critica. In aiuto ai ragazzi affetti da questa sindrome è stato creato il Sito di Hikikomori Italia con le chat regionali e il forum aperto sia a loro che ai genitori: una bacheca di richieste di aiuto e di sofferenza, ma anche di storie a lieto fine, come quella di Luca:

«Il giorno e la notte erano identici, dormivo quando avevo voglia, mangiavo quando avevo voglia. Ho perso tutti gli amici e lo schermo era uno “stargate” per un altro universo. Il tempo si dilatava quando cliccavo sulla tastiera e non volevo mai smettere. Quando dovevo lavarmi fremevo sotto la doccia per rimettermi a giocare. Ho passato così più di due anni giocando a Wow [World of Warcraft, un videogioco di strategia ndr] in totale isolamento. Non riuscivo neanche più a camminare. Tutto questo è successo senza che mia madre si accorgesse di nulla: lavorava dalle 8 alle 17 e io facevo finta di andare a scuola. Non avevo più voglia di tornarci. Troppa pressione. L’isolamento è una battaglia che alla fine diventa una cura. Cresceva dentro di me come un’onda, lentamente, fino al momento in cui tutto iniziava a darmi fastidio, non sopportavo cosa facevo, non sopportavo chi ero. Oggi ne sono fuori, vivo all’estero e ho una fidanzata bellissima. Sono o sono stato un hikikomori? Non lo so, ma quello che so è che la forza per combattere quel demone sta e risiede solo dentro di voi, nessuno vi può aiutare, nella taverna di qualche montagna virtuale dove voi stessi vi siete persi, con la sensazione di pace che vi avvolge la mente. L’unico consiglio che mi sento di darvi è: scappate da quel computer».

E noi quale consiglio possiamo proporre ai ragazzi sempre connessi, ma soli, solitari e isolati dalla società? Proviamo a verbalizzarlo. «Il dono più bello lo avete già ricevuto: è la vita. Adesso datevi da fare. Non perdete il tempo. Non lasciatevi travolgere dalle tecnodottrine di turno. Verificate sempre se queste tecnodottrine non siano tecnosirene. Non dimenticatevi di porre la domanda aurea: “Quanto siete cresciuti nella vostra consapevolezza esistenziale?”. Mettete impegno in tutte le cose che fate, a cominciare dallo studio. Dovete studiare e intercettare quello che sta avvenendo. Abbiate il senso della vita, vogliatevi bene e rimboccatevi le maniche perché il Signore vi ha fatti intelligenti. Frate Francesco d’Assisi, da grande maestro di “reti” e di relazioni, vi offre un simpatico episodio riguardo all’atteggiamento più utile da tenere verso i mezzi tecnologici. Lo riporta la Compilazione d’Assisi (CAss 103-104: FF 1626-1627), denominata anche Leggenda perugina (o più recentemente Fiori dei tre compagni, cioè di Leone, Rufino e Angelo), messa insieme, nel passaggio tra il sec. XIII e il XIV, con materiali di provenienza e di ispirazione diversa al fine di ricostruire una Leggenda sulla vita dell’Assisiate che fosse più “antica” di quella “nuova”. Ivi si dice che il Poverello ha aiutato il giovane novizio a discernere i vari motivi nascosti dentro il suo desiderio di possedere un breviario, all’epoca il top della tecnologia della scrittura, essendo fatto di preziosa pergamena. Francesco lo forma, aiutandolo a liberarsi dal narcisismo dell’avere e del sapere, per lasciarlo libero di seguire la sua vocazione alla semplicità, alla frugalità, alla preghiera. Il suo desiderio di autenticità, con o senza breviario.

La rete non è soltanto un mezzo o uno dei media. E’ un «ambiente di vita», di indiscusse potenzialità, in cui abitare in modo degno dell’uomo. Ed è una palestra di straordinarie possibilità per accompagnare i ragazzi, per tessere con loro i dialoghi, per presentare loro un sano dating spirituale, ma anche per segnalare loro le innumerevoli trappole disumanizzanti. Frate Francesco, se fosse tra noi oggi, non avrebbe certamente difficoltà ad elevare la rete a suo chiostro, un po’ strano, ma comunque chiostro abitato da persone, talvolta lebbrose e ferite, bisognose di un incontro e di un sentiero, anche infotecnologico, più fraterno e solidale, umano ed umanizzante. E forse potrebbe diventare patrono di questo hyperchiostro, del web, della rete….

Una Serata meravigliosa, rivelatrice, istruttiva.

Piotr Anzulewicz OFMConv

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«Devi sentire il cuore che lotta!»

Tanti eventi venerdì 23 marzo 2018: a Manchester, l’amichevole disputa degli azzurri con i sudamericani, pur privi delle sue stelle più brillanti, Messi e Aguero; a Roma, la riunione presinodale di 315 ragazzi e ragazze, in rappresentanza dei coetanei di cinque continenti, per conoscersi come generazione, scoprire in cosa ritrovarsi, capire su cosa contare e da cosa prendere le distanze, definire e accogliere le differenze, guardare in avanti e intuire cosa li aspetta, chiedersi come entrare in contatto con la propria interiorità e aprire il proprio cuore alla spiritualità nel mondo ipercomunicativo e iperconnesso, trovare un equilibrio tra spazi di progresso estremo e spazi di introspezione profonda, essenziale, autentica, in vista del Sinodo dei Vescovi di ottobre; nelle chiese parrocchiali, la Via Crucis; nel mondo, la celebrazione della 7ª Giornata della Meteorologia dal logo «Meteorologicamente pronti, climaticamente intelligenti» («Weather-ready, climate-smart»), e, a Catanzaro Lido, la 5ª Serata cinematografica con la proiezione del film «The dark Horse» di James William Napier Robertson e la conversazione sul bipolarismo come il male che avvelena un’intera famiglia, la Serata ideata all’interno della 6ª edizione del CineCircolo con il motto: «I giovani con la ‘sorella’-‘madre’ Terra per immagini».

Tanti eventi e, in più, la sfuriata invernale, con un consistente afflusso d’aria artica, hanno messo a dura prova i fans del Circolo. La Serata però è stata presa d’assedio da un pugno di persone più «habitué», anche soltanto per un veloce saluto, una parola di incoraggiamento, un segno di amicizia, ed alcune di loro sono rimaste fino all’epilogo. A tutti è stata offerta una variazione nel programma, diversa dal solito. Dopo la visione del video «Disturbo bipolare | Persone che convivono con una malattia» e le note preliminari sul film, la dott.ssa Teresa Cona, segretaria del Circolo, ha catalizzato l’attenzione dei presenti sulle cause, le caratteristiche, i sintomi, le terapie e le tecniche psicologiche utilizzabili nel trattamento di questa malattia, di cui era contagiato il protagonista del film. «Il soggetto − ha detto − che ha un disturbo bipolare, nella maggior parte dei casi, non ha la consapevolezza di averlo, perché le fasi ipomaniacali e maniacali sono percepite come normali. E’ un disturbo che se non riconosciuto e curato correttamente può avere gravi conseguenze: molte ore di lavoro perse, rottura di relazioni affettive, periodi di maggiore disinibizione sessuale e di litigiosità e nervosismo, maggiore rischio di suicidio e molta sofferenza soggettiva». E’ un disturbo dell’umore definibile come «una tonalità affettiva predominante che permea e colora la vita psichica, e che viene percepita come stabile, sebbene temporalmente sia caratterizzata dal susseguirsi di una vasta gamma di emozioni e sentimenti che fisiologicamente variano in relazione a diversi fattori interni ed esterni, come fosse il colore della tela su cui stendere i colori della giornata». Il disturbo bipolare, chiamato anche disturbo maniaco-depressivo o bipolarismo, o depressione bipolare, è caratterizzato dalla «perdita, più o meno marcata, di questo equilibrio, per cui si osserva da un lato un’instabilità affettiva, una labilità emotiva, una lunaticità esasperata, che si riflette nella vita personale e relazionale del soggetto, e dall’altro lato, momenti di fissazione del tono dell’umore, tra la depressione da una parte e l’eccitamento (ipo)maniacale dall’altra. Con l’umore variano i livelli di energia fisica, la sensazione di maggiore o minore efficienza mentale, la qualità e la forza dei pensieri, il sonno, l’appetito e il peso, la reattività agli eventi e alle provocazioni. In pratica, assieme all’umore, vengono coinvolte le emozioni, i pensieri, i comportamenti, il modo di prendere le decisioni e le priorità».

Un argomento interessante, nuovo, utile, anche per capire l’intensa storia del protagonista del film, l’ex campione di scacchi e, in particolare, di partite lampo, il neozelandese Genesis Wayne Potini († 2011), affetto da questo disturbo. Per sfuggire all’ospedale e reintegrarsi nella società diventa allenatore di scacchi a squadre, in un centro di recupero di ragazzini disagiati e a rischio.

Il film ha fatto incetta di premi ed è stato osannato dalla critica come «uno dei migliori film di tutti i tempi», un vero gioiello cinematografico, un intrigante racconto di redenzione e di speranza per una comunità lasciata completamente allo sbando. «Il film, dall’animo profondamente umano, è impreziosito − afferma Silvia Casini − dall’interpretazione di un cast straordinario. Protagonista è l’attore Cliff Curtis, interprete di Die Hard – Vivere o morire, che dà corpo e anima a Genesis Potini, un uomo dalla personalità instabile, ma pur sempre carismatico». Infatti, il lungometraggio racconta la sua incredibile vita, quella di una persona problematica, ma assolutamente geniale, che troverà il coraggio per guidare un’intera comunità, trasformandosi in un vero e proprio modello da seguire, capace di spronare, motivare e infondere speranza nel prossimo.

«Lo sguardo − continua Casini − è chirurgico e mette in evidenza una società che cede alla via criminale, perché delinquere è considerato un modo per restare a galla, ma The dark Horse (così è soprannominato Genesis per le sue abilità strategiche) sa perfettamente che sopravvivere senza dignità e rispetto non equivale a vivere, e benché abbia un’esistenza piuttosto complicata, crede fermamente nel potere dei sogni e della volontà, tant’è che una volta impartiti i primi insegnamenti alla giovane combriccola di svantaggiati, annuncerà loro il suo progetto. Già… perché Genesis ha un piano, non uno qualsiasi; ne ha uno bello grosso: farli arrivare al campionato nazionale di scacchi. Ovviamente, non sarà affatto facile, perché strappare i ragazzi da situazioni potenzialmente pericolose, costituirà un’impresa ardua. E così, mentre lotterà per uscire dall’isolamento psicologico dovuto alla malattia, cercherà anche di far fronte a diverse avversità, tutte insite nelle gang di quartiere. In definitiva, The dark Horse si configura come una pellicola capace di toccare il cuore con grande sensibilità, perché, grazie all’esempio di Genesis, è in grado di emergere un messaggio fondamentale per questo mondo così disastrato, ovvero il valore della forza identitaria e delle seconde opportunità».

L’espressione anglosassone Dark Horse, che dà il titolo al film, non indica un perdente, una “pecora nera” o un ‘rifugiato’ nel comodo guscio di un’infanzia priva di responsabilità. Indica invece chi percepisce la vita come una lotta di tutti i giorni, fra la comodità e il servizio agli altri. «Devi sentire il cuore che lotta!» (Papa Francesco).

Chapeau al regista e a quanti sono rimasti fino all’ultima sequenza della 118ª Serata.

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Piotr Anzulewicz OFMConv