In bilico tra paura e speranza
Venerdì 18 marzo si è tenuta la 5ª Serata cinematografica, presso il Salone «S. Elisabetta di Ungheria», al lato destro della chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido. In programmazione un film ad alta intensità e attualità: «Timbuktu» (Le chagrin des oiseaux), con il tema strappacuore: fondamentalismo religioso e jihadismo islamista. Un gioiello, capace di geniali rovesciamenti prospettici, da vedere assolutamente. Lo avremmo guardato con fiato sospeso, in bilico tra speranza e disperazione, se non ci fosse stato un fatto imprevedibile: la pennetta Usb, fornita dalla Cineteca, su cui era stato riversato il film, non ha funzionato. In sostituzione, per rimanere in tema, all’istante si è deciso di proiettare la pellicola di Roberto Benigni: «La vita è bella». Il film di Abderrahmane Sissako, uno dei pochi artisti africani conosciuti ed apprezzati anche in Occidente, sarà ripresentato in data da stabilirsi. La sua trama, comunque, è stata raccontata dalla dott.ssa Teresa Cona, curatrice principale della 2ª edizione del CineCircolo «sui sentieri della misericordia».
Era il 2012 quando le milizie jihadiste integraliste provenienti da altri luoghi, a partire dalla Libia, invasero Timbuktu, città del nord del Mali, considerata patrimonio dell’umanità e una delle sette meraviglie del mondo con i suoi inestimabili tesori – compresi i manoscritti di Avicenna († 1037), medico, filosofo, matematico e fisico persiano, una delle figure più note nel mondo islamico – per farne il loro quartier generale. La loro distorta ed integralista visione della vita e della religione portò non solo devastazioni e terrore, ma anche “distruzioni” atte a colpire il patrimonio delle conoscenze, principale nemico dell’ortodossia, e cominciare proprio da lì, da questo luogo simbolo, a tracciare le linee guida di un percorso, in una «escalation» strisciante, che adesso avvertiamo insidiosa anche sulla nostra pelle con molta preoccupazione, ma con poco coraggio oppositivo. Uno sgretolamento della civiltà che non sappiamo ancora a quale deriva ci condurrà, ma certamente più tragica di ciò che è già accaduto dopo i fatti dell’11 settembre del 2001. Questa volta in nessuna parte del mondo niente potrà essere come prima, e non lo è più nemmeno adesso, come testimoniano i luttuosi fatti di ogni giorno.
Sissako, con rara ed efficace precisione, riesce dunque a fissare il suo sguardo su una zona “simbolo” che suo malgrado è stata fra le prime a dover fare i conti con la furia dei jihadisti, quando ormai al-Qaeda sembrava essere (quasi) sconfitta e si sottovalutavano i “piccoli” conflitti, a torto ritenuti locali, compresa la tragedia della Siria che non ci interessava proprio, e a darci una lettura fatta dall’interno. Infatti, il suo non è un film anti-islamico, ed è bene chiarirlo subito (e il discorso che l’imam della moschea locale fa al neofita jihadista, ne costituisce la prova più evidente, soprattutto nel passaggio in cui afferma che anche lui ha la «jihad» nel cuore, intesa però come ricerca interiore, non come strumento di dolore e sofferenza altrui), ma è proprio per questo ancora più importante soprattutto per noi che abbiamo solo una conoscenza “di riporto” delle cose, e non sempre del tutto attendibile.
Visivamente bellissimo ed appassionato Timbuktu è un grido che colpisce al cuore: il drammatico ritratto del paese dell’infanzia del regista – il Mali, appunto, Paese che non fa notizia e non produce mobilitazioni internazionali – le cui ricche tradizioni umane sono state così pesantemente calpestate da un fanatismo che arriva da lontano. «Sono nato in Mauritania, ma mi sono ben presto trasferito in Mali con la mia famiglia – è lo stesso Sissako a dirlo – e mi preoccupa moltissimo ciò che sta accadendo in quella terra e che si sta allargando a macchia d’olio, perché sono un cittadino del mondo: che sia cresciuto lì è per me un fatto davvero secondario. Trovo, infatti, spaventoso e inaccettabile, a prescindere da quella circostanza personale, che un gruppo di persone, sempre più organizzato e vasto, in costante espansione, si sia posto l’obiettivo di trasformare con tanta efferatezza la società islamica, che per secoli è stata tollerante e gentile, in qualcosa di così intollerante e brutale».
Sissako, con il suo stile lento e piano, fatto di silenzi e di sguardi più che di parole, ci racconta quindi – e universalizza – ciò che è accaduto e sta accadendo in un angolo insanguinato dell’Africa, e ci invita a tenere bene a mente che il male può annidarsi ovunque, anche nei luoghi più tranquilli e “pacifici” della terra: si palesa o arriva all’improvviso, cambiando inesorabilmente il corso delle cose… «Nessuno è al sicuro, insomma, ed è molto meglio prevenire anziché provare a chiudere la stalla quando ormai i buoi sono scappati» (Spopola).
Un breve dibattito con i partecipanti ha surriscaldato l’atmosfera. La data della proiezione del Timbuktu, il 18 marzo, è quanto mai significativa. Proprio due giorni fa – ha ricordato il Presidente del Circolo – è stata compiuta un’ennesima orribile strage, all’interno di una moschea alle porte di Maiduguri, capitale dello Stato del Borno: almeno 25 le vittime. La matrice sarebbe quella dei jihadisti di Boko Haram (il nome deriva dalla parola «hausa boko» che letteralmente significa «l’istruzione occidentale è sacrilega» o «vietata»), un’organizzazione terroristica jihadista sunnita, diffusa nel nord della Nigeria e nota anche come «Gruppo della Gente della Sunna» per la propaganda religiosa e il «jihad» (il termine arabo che nella dottrina islamica indica tanto lo sforzo di miglioramento del credente, quanto la guerra condotta «per la causa di Dio» contro gli infedeli, per l’espansione dell’islam). Quel gruppo integralista vuole eliminare i cristiani dal nordest a maggioranza islamica e imporre una pratica religiosa più rigorosa, secondo la legge coranica. È per questo attacca anche le moschee e i fedeli islamici. Il governo nigeriano combatte questo estremismo, ma sembra lontano dal riuscire a sconfiggerlo, perché il gruppo è molto radicato nel territorio. La Nigeria è uno dei Paesi più ricchi del mondo, nel senso che è il primo produttore africano di petrolio, ma a causa della corruzione è anche uno dei Paesi più poveri del mondo, con tuttora più del 60% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. È la povertà che favorisce il reclutamento di terroristi, magari non convinti dal punto di vista religioso, trattandosi di Boko Haram, ma convinti dal fatto di ricevere una paga, un salario, un compenso. E poi c’è il fatto che sparisce anche quel denaro che viene stanziato per acquistare armi e formare l’esercito per combattere i jihadisti appartenenti alla galassia del terrorismo internazionale. Di conseguenza i contingenti militari scappano, invece di difendere le comunità e attaccare o perlomeno di arginare Boko Haram, sostenendo, per l’appunto, di non essere in grado di farlo, in quanto meno equipaggiati. Così non passa settimana senza un attentato di proporzioni minori per gravità e vittime. Boko Haram impiega donne e addirittura bambine, approfittando del fatto che con il velo integrale è più facile passare inosservati e soprattutto nascondere esplosivo.
Tornando al film Timbuktu, il regista ha scelto di non essere il narratore di un tragico fatto di cronaca, ma si è posto un obiettivo molto più ambizioso, quello di darci un quadro più ampio e documentato della situazione, organizzando un racconto che invita alla riflessione. Grazie alla struttura del suo film che precede per contrapposizioni, ci fa vedere l’abissale distanza tra due mondi, fisicamente vicini, ma al tempo stesso anni luce lontani l’uno dall’altro: da una parte un fiabesco paesaggio immerso fra le maestose dune del deserto, che incornicia la vita di una famiglia, quella di Kidane con la moglie Satina e la figlioletta, che conosce l’armonia e la fedeltà nelle relazioni parentali e con la divinità, e dall’altro il villaggio sottoposto alla dura legge della sharīʿa imposta da uomini che in una babele di lingue (tuareg, arabo e francese) atte ad indicarne le differenti provenienze, e senza altra radice comune che non sia quella dell’integralismo, impongono norme vessatorie, con frustate, incarcerazione o addirittura con qualcosa di più terribile, proibendo di cantare, danzare, fumare, giocare al calcio o affacciarsi alla finestra, infierendo soprattutto sulle donne costrette ad indossare velo, guanti e calzettoni.
Il tutto viene trasfigurato da Sissako in quel preoccupante grido di allarme, lanciato a un Occidente spesso distratto e incline a pensare che in fondo l’integralismo sia una rivolta contro i secoli di colonialismo subiti, e che nasca di conseguenza dall’interno delle varie realtà nazionali. Il regista riesce a smontare questa concezione ponendoci di fronte a una verità ancora più brutale: si tratta di un’oppressione che ha alle spalle un ben più pericoloso e ambizioso progetto studiato a tavolino, frutto di una follia ideologica assetata di sangue infedele che prende a pretesto una supposta fede per sottomettere intere popolazioni e provare – come è già accaduto in passato – a colonizzare il mondo intero, una forma cancerogena che si sviluppa e dilaga come una metastasi ormai difficile da contenere e contrastare per il ritardo con cui ne abbiamo preso coscienza. Se non ci sarà un cambiamento di rotta, forse «non resta molto altro da fare, se non quello di provare a fuggire a gambe levate correndo a più non posso, come fa la gazzella del film, sperando di non stramazzare esausti senza essere riusciti a trovare un rifugio sicuro per riprendere almeno un po’ di fiato, perché è proprio quello che vogliono»: “sfiancarci”.
Nel corso della Serata, a sorpresa, il Circolo ha voluto, in concomitanza della festa di s. Giuseppe, festeggiare l’avv. Giuseppe Frontera, consigliere e curatore principale della 2ª edizione delle Serate conviviali focalizzate su «Catanzaro ed oltre: mille volti» e tese a rilanciare «quegli “input” che sono necessari alla rinascita della cultura di accoglienza e solidarietà, nel segno dell’Anno della Misericordia». A nome della nostra associazione, la Segretaria gli ha fatto dono del volume di Franco Riga Catanzaro Marina – storia di un borgo antico (Editore Istante, 2014), che racconta con 480 illustrazioni fotografiche un territorio poco rappresentato e di grande potenzialità, e di una pergamena sulla quale i presenti hanno apposto la propria firma. Si è stappato lo spumante e si è brindato tra la gioia dei partecipanti e la commozione del Festeggiato. Non sono mancati dolci e torte salate portate dalla sig.ra Daniela.
Si è quindi ripreso la proiezione del film La vita è bella, ma solo per breve tempo. È stata interrotta, anch’essa a sorpresa, per l’arrivo del gruppo parrocchiale appartenente al «Rinnovamento nello Spirito Santo», con un veloce saluto, quanto gradito, a tutto il Circolo. Sono momenti come questi che ripagano tanti sacrifici che soggiacciono ad ogni evento culturale proposto dal Circolo. Il riconoscimento del lavoro, svolto con passione ed entusiasmo, pur tra mille difficoltà, ostacoli e imprevisti, affinché vengano dibattute e affrontate le problematiche più scottanti, rinfranca gli animi e permette di proseguire nell’arduo cammino che attende chiunque pretenda di «far cultura» nella propria comunità parrocchiale e civile, in modo volontaristico e del tutto gratuito, con l’unica gratificazione di saper di avere contribuito a portare la cultura dello stare insieme e del progettare insieme il presente e il futuro.
L’appuntamento è a venerdì 1 aprile, alle ore 18.45, dopo la pausa per le festività pasquali. Una splendida opportunità di riflettere sulle tradizioni pasquali catanzaresi degne da custodire, coltivare, reinterpretare e far scoprire alle giovani generazioni.
(pa-tc)
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