Le sante e le indemoniate

Le sante e le indemoniate: un tema affascinante e intrigante, con tanti bellissimi e sconvolgenti dettagli. Ce ne sarebbero stati molti di più se tra noi fosse stato il dr. Mattia Zangari, con il suo stile audace e autorevole, il fior fiore nel programma della 3ª Serata conviviale con «aperitivo» [220] che si è svolta venerdì 4 novembre 2022, dedicata a Eustochio [Lucrezia] da Padova († 1469), Jeanne des Anges († 1665) e le altre donne, sante e indemoniate, appunto. L’influenza lo ha inchiodato a letto e gli ha impedito di condividere le proprie conoscenze nel Salone di S. Elisabetta d’Ungheria situato al lato destro della chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido. Il suo studio Santità femminile e disturbi mentali fra Medioevo ed età moderna (Editori Laterza, Bari-Roma 2022) “riecheggiava” comunque nella presentazione – da parte di Tonia Speranza, affiancata dalle lettrici di alcune testimonianze storiche: Lucia Scarpetta e Iolanda De Luca – dell’orsolina Jeanne des Anges Belcier legata alla famosa vicenda della possessione diabolica di Loudun, una località ridente, nell’ancor più ridente regione francese Poitou.

È stato meraviglioso e, al tempo stesso, pericoloso l’ondeggiare tra le femmine umanizzate, “amorizzate” e benedette e le femmine disumanizzate, isteriche e maledette, tra il paradiso e l’inferno, tra la salvezza e la perdizione, tra la beatitudine e la dannazione. Davanti agli occhi dei partecipanti scorrevano le immagini horror che potevano terrorizzare e spaventare chiunque, ma anche quelle che potevano incantare e portare al settimo cielo. Le donne, con il cerchietto d’oro, furono preferite, pur presentate dal sottoscritto nella sfumatura, nella vaghezza, nel “compendio”. Si trattava soprattutto della benedettina Eustochio, la monaca che sconfisse il demonio e nel 1760 divenne beata, grazie a Papa Clemente XIII, precedentemente vescovo di Padova.

Ad aprire questa singolare Serata della 10ª edizione WikiCircolo dal filo rosso: «Donne, ‹sorelle tutte›, che ‹fanno bello il mondo›», è stato il video musicale «A Madre de Jesu Cristo» (4:05′) dell’ensemble Elthin, la banda ceca, specializzata nella musica medievale e rinascimentale, fondata nel 2006 e diretta da Jan Pouska, vocalista e liutista. A infervorare la memoria dei presenti, lo sguardo sulle due Serate precedenti, con il video «Nel cuore della bellezza e tenerezza: 1ª Serata del WikiCircolo, con Jacopa de’ Settesoli...» e lo slideshow «Margherita, Angela ed altre donne mistiche» (il video «”Chiara di Dio”: 1ª Serata cinematografica [217]», bellissimo anch’esso, ‘imprigionato’ dall’app Biteable, è in attesa di liberazione da qualche benefattore).

Con il video «Essere donna nel Medioevo. Storie, ruoli e responsabilità al femminile» (5:32′), proiettato da Ghenadi Cimino, operatore audio-visivo, si è aperta la nostra ibrida tavola rotonda, offline e online, generando la fantasia e la curiosità e suscitando il confronto con la questione femminile di oggi, la questione colta nel segno dalla programmazione della 10ª edizione del Wiki– e CineCircolo, idealmente in sintonia con la fase narrativa del cammino sinodale della Chiesa e con i grandi testi del suo magistero [1. «Messaggio alle donne» di Paolo VI (8.12.1965); 2. Lettera apostolica «Mulieris dignitatem» sulla dignità e vocazione della donna (15.08.1988) e «Lettera alle donne» di Giovanni Paolo II (29.06.1995); 3. Esortazione apostolica «Evangelii gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale (24.11.2013) ed Enciclica «Fratelli tutti» sulla fraternità universale e l’amicizia sociale di Francesco (3.10.2020); 4. «I cantieri di Betania›: prospettive per il secondo anno del cammino sinodale» (5.07.2022) e «Sintesi nazionale della fase diocesana» del Sinodo 2021-2023 «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione» della CEI (15.08.2022)].

A conferma di questa felice sintonia – oltre le affermazioni contenute dalle nelle sintesi continentali del cammino sinodale – sono gli ultimi numeri di Donne Chiesa Mondo, il mensile femminile de L’Osservatore Romano, diretto da Rita Pinci. Ne diede notizia alla vigilia della Serata l’agenzia SIR (Servizio Informazione Religiosa), l’organo d’informazione della CEI sempre aggiornato su Chiesa, Vaticano, diocesi, conferenze episcopali e reti ecclesiali. Le donne «non sono veggenti – scrive la teologa Cettina Militello nel saggio che apre il numero di ottobre dedicato alle profetesse –, non predicano un futuro lontano. La loro profezia è istanza di libertà, intelligenza degli avvenimenti, capacità di visione: con mente attenta a quel che accade, parlano e operano perché il mondo non si perda e diventi più giusto e solidale. Superano barriere di genere, geografiche, culturali, religiose e si impegnano per la giustizia, la pace, la cura del creato».

«Le ribelli della povertà». Questo il titolo invece del numero di novembre di Donne Chiesa Mondo. «La povertà? È parola complessa – afferma nell’articolo di apertura suor Alessandra Smerilli, economista e segretario del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale. – E lo è ancora di più se la si affronta dal punto di vista delle donne». Chi sono “le povere”? Sono quelle da «commiserare come tutti coloro (maschi e femmine) che non possiedono nulla e sono costretti ad una vita difficile e spesso dolorosa? O c’è anche una povertà che nasce dall’idea di una felicità diversa, recidendo, sì, i legami con il consumo e con il mercato, ma rivendicando nel contempo libertà di scelta, parità e uguaglianza? Sì, c’è una povertà come metodo, come profezia, anche come ribellione e trasgressione. La povertà che libera, per dirla con Papa Francesco. La povertà che rende ricchi», l’interrogativo posto dall’editoriale. Povertà come benedizione per s. Chiara d’Assisi, che per sé e per le consorelle chiese questo “privilegio”, come racconta lo storico Giuseppe Perta. Suor Veronica Maria, già ballerina professionale, contesa da compagnie europee, che ha fatto studi di legge brillantissimi, difende oggi la scelta della povertà come “trasgressione” nell’intervista a Gloria Satta. Per suor Françoise Petit, superiora generale delle Figlie della Carità, il voto di povertà non è obbedienza a una Regola, ma «una condotta scelta liberamente». E poi le “povere” nella Chiesa e della Chiesa. Ecco le voci di teologhe, docenti, fedeli, sacerdoti, vescovi, raccolte da Lucia Capuzzi e Vittoria Prisciandaro: donne che proprio nella Chiesa vengono marginalizzate, umiliate, alle quali non si riconosce ruolo nonostante la loro fatica, cultura e intelligenza. «Povere sono le donne (quasi tutte) – constata Maria Pia Veladiano – che, al posto giusto, un posto di corresponsabilità visibile al mondo e ai fedeli tutti, potrebbero riempire le chiese di speranza e cambiare il mondo secondo il progetto del Regno e non possono farlo».

Non sono damine lamentose, abbandonate, sfortunate, sedotte, adagiate sul divano del pettegolezzo e della chiacchera quelle della 3ª Serata. Sono sante e indemoniate, trasgressive, coraggiose, ribelli, senza filtri sugli occhi e senza terrore di essere isolate e bruciate: piegano il mondo verso di sé, decidono che cosa fare della propria vita e scoprono come farsi valere e cercare la felicità.

Torniamo allora a Eustochio che riuscì a sconfiggere il diavolo… Nacque con il nome di Lucrezia Bellini a Padova nel 1444 da un rapporto adulterino tra Maddalena Cavalcabò, monaca, ed un signorotto locale, Bartolomeo Bellini. Il monastero di S. Prosdocimo era quanto mai “chiacchierato” ed era risaputo che la comunità monastica viveva nell’immoralità ed era aperta alla vita mondana a tal punto che veniva definito un “lupanario di meritrici”. D’altra parte a Padova, nel Quattrocento a fronte di oltre 20 conventi di frati e 30 di monache su una popolazione di circa 30 mila persone e moltissime chiese minori e parrocchie, la religiosità non era poi molta e la vita cristiana non così fervente, anzi, dilagava la corruzione e la simonia, cioè l’entrata in convento per comodità, interesse e non per vocazione, come nel monastero di S. Prosdocimo, nonostante lo sforzo e l’impegno della badessa nel dare un freno a quel malcostume.

Pare che una suora anziana, tale suor Maiorino, spingesse le sorelle ad una vita dissoluta e lo stesso fece con la madre di Lucrezia, che viveva presso il monastero benedettino sul Monte Gemola, sui Colli Euganei, oggi Villa Beatrice d’Este, spingendola a trasferirsi al monastero di Padova per facilitarne, a sua insaputa, l’incontro con il signor Bellini, già sposato, che viveva lì vicino, come di fatto successe… Una volta incinta e fintasi ammalata fece ritorno al Gemola.

Al compimento del settimo anno di età il padre affidò Lucrezia al monastero dove visse la madre, quello di S. Prosdocimo. Le monache di questo convento furono addirittura accusate di aver avvelenato la badessa causandone la morte, sostengono gli storici dell’epoca. In questo posticino, che non lasciava presagire nulla di buono, viveva la piccola Lucrezia ed è poco dopo il suo ingresso in convento che iniziò a manifestare i segni di una “possessione” demoniaca che l’aveva colpita già anni prima, quando manifestava scatti d’ira e irrequietezza. Quando il vescovo, alla morte della badessa, ordinò maggiore disciplina, ottenne che tutte le monache lasciarono il convento ed i voti, tranne Lucrezia che, mai distratta dalle attrazioni del mondo, scelse come ragione di vita la solitudine e la preghiera, in particolare alla Vergine Maria, a s. Luca e a s. Girolamo a cui era molto devota. Successivamente la raggiunsero in convento altre monache benedettine dal convento di S. Maria della Misericordia, sotto la guida della badessa Giustina de Lazzara.

Il 14 gennaio 1461 Lucrezia riceve l’abito benedettino color nero con il nome di “Eustochio”, prendendo il nome del suo santo prediletto, Gerolamo, e fu dopo questo momento che il “demonio” tornò a prendere il sopravvento su di lei, facendole compiere atti inconsulti e violenti nei confronti delle consorelle e violare la Regola. Per molti giorni fu addirittura legata ad una colonna. Successivamente dovette sopportare gravi sofferenze psicofisiche, contrasse una strana malattia con continui conati di vomito, fu incolpata di essere una strega e finì rinchiusa in carcere per tre mesi a pane ed acqua. Nonostante ciò, a forza di digiuni e preghiere, continuò a lottare contro il maligno e dimostrare alle monache del convento le proprie virtù. Così il 25 marzo 1465 fu ammessa alla professione solenne e due anni dopo ricevette il velo nero delle benedettine. La sofferenza l’aveva segnata e ne aveva ormai debilitato il fisico, colpito anche da piaghe che ne avevano deturpato il volto da renderla irriconoscibile. Morì il 13 febbraio 1469, alla giovane età di 25 anni, dopo che il suo acerrimo nemico di tutta una vita, il demonio, abbandonò il suo corpo restituendole sorriso e bellezza. Quando quattro anni dopo il suo corpo fu riesumato, dal sepolcro iniziò a sgorgare l’acqua taumaturgica, con le frequenze della luce perfette, straordinarie, potenti.

Nel 1475 il corpo era stato portato nella chiesa di S. Prosdocimo (conosciuta oggi anche come Duomo dei Militari) e dal 1720 reso visibile in una teca di cristallo. Nel 1760 Eustochio divenne la beata Eustochio. Nel 1806, soppresso il monastero presso il quale il flusso di acqua miracolosa smise di uscire, il suo corpo fu portato nella chiesa di S. Pietro e posto sull’altare della cappella laterale. Attualmente la salma si trova al duomo di Padova per lavori di consolidamento e restauro della chiesa di S. Pietro.

Eustochio fu un esempio di grande forza, determinazione e soprattutto fede che, alla fine della sua breve vita, riuscì a sconfiggere il demonio che si era impossessato del suo corpo fin dalla tenera età. Fu per questo motivo che venne “beatificata” e considerata oggi la protettrice di chi soffre di tribolazioni spirituali quali posseduti ed indemoniati vari, un punto di riferimento per i sacerdoti esorcisti di tutto il mondo oltre che per i fedeli che venerano il suo culto.

A questo punto alle orecchie dei presenti nel Salone arrivarono le splendide note e le ardite parole delle due canzoni di ispirazione medievale: «Lo paure Satan» e «Er dei tripetas», eseguite dall’ensemble «Anonymous & Strada», tratte dall’album «A la via!» (08:49-11:24′) e accompagnate dalle eloquenti immagini proiettate da Ghenadi sul grande schermo.

Ed ecco il momento per Jeanne des Anges, badessa delle Orsoline di Loudun, presentata da Tonia, in collaborazione con Lucia e Iolanda che hanno letto alcune testimonianze attinte dal libro di Mattia. Jeanne des Anges è una suora senza vocazione, abituata ad essere obbedita dalle consorelle e a vivere come una regina. Nel 1634 scrive al curato Urbain Grandier, per offrirgli il posto di confessore per se stessa e per le sue compagne. Il curato è carismatico, di vasta cultura, giovane e – a leggere le vecchie cronache – è molto bello, ammirato sia da cattolici che da protestanti. E’ un uomo più importante della città e nella regione del Poitou. Il suo rifiuto del posto brucia a suor Jeanne, che decide di vendicarsi su di lui ed umiliarlo, pur essendo innamorata in lui, in maniera ossessiva e maniacale, da quando lo ha visto una sera di sfuggita e ha sentito parlare delle sue avventure. Così lei e altre suore cominciano a manifestare segni d’isteria, accusando Grandier di averle visitate la notte nelle loro celle e di averle toccate contro la loro volontà. Inoltre, molte di loro hanno le convulsioni e bava alla bocca, descrivono gli amplessi con parole sconce che non possono conoscere, a meno che qualcuno non gliel’abbia rivelate. Indemoniate è il verdetto comune della gente e suor Jeanne si rivolge a un suo parente a corte. Ha gioco facile perché Grandier più di una volta ha parlato contro card. Richelieu, primo ministro del re Luigi XIII, e la sua politica accentratrice. Subito è spiccata un’accusa di stregoneria e di immoralità verso il prete che viene arrestato, imprigionato, torturato e condannato a morte. Il 18 agosto 1634 è bruciato sul rogo come stregone. Suor Jeanne des Anges resta indemoniata fino al dicembre 1639 quando miracolosamente guarisce. Muore il 29 gennaio 1665, in odore di santità. Sulla sua vicenda e sulle monache stregate e ossesse, il più famoso caso di possessione demoniaca della storia, c’è un bellissimo film ispirato al romanzo «I diavoli di Loudun» di Aldous Leonard Huxley († 1963), scrittore e filosofo, e diretto nel 1971 da Henry Kenneth Alfred Russell († 2011), regista e sceneggiatore: «I diavoli».

La canzone «Stella splendens in monte», tratta dal Llibre Vermell de Montserrat (XIV sec.), apri il dibattito, per niente letargico, ma inebriante e a tratti elettrizzante.

Rosa Mercurio, assidua e affezionata frequentatrice delle Serate, raccontò, con un cuore luminoso come il sole, il suo amore per la b. Eustochio, coinvolgendo le emozioni dei presenti nel Salone. Nel 2012 è andata con il suo malato sposo a Padova dove già vivevano i suoi tre figli medici. Un non-luogo, Padova, diventò presto il luogo per eccellenza, grazie ad una casuale scoperta della b. Eustochio nella chiesa di S. Pietro, situata vicino al suo appartamento preso in affitto. È stata lei ad incantarla e accompagnarla, per un anno intero, fino alla morte del suo amato sposo. Le ha fatto sentire che la malattia non è strazio… Ogni giorno si recava in chiesa ed entrava nella cappella dove è custodito il suo corpo. Lì si sentiva a suo agio, come se fosse immersa in una luminosità che le mostrava quanto è ampio il ventaglio delle esperienze umane che è possibile accogliere in sé. Questo non era il tempo di «girl meets boy», delle favole o commedie romantiche medievali, ma la porta di un mondo nuovo, beatifico, luminoso. Eustochio svelava e dava respiro a qualcosa che è evidente nei santi, ma in fondo è profondamente umano, e ci riguarda tutti. Riempire di senso le parole come amore non è facile, ma è qui che i santi puntano e a volte fanno centro.

Il sottoscritto mostrò allora il disegno di Vitale Frontera, figlio adottivo di Marialuisa e del memorabile Peppino. Un disegno bello, fine, artistico, realizzato a penna, raffigurante la b. Eustochio. Avrebbe voluto parlare a lungo delle lettere che salvano la vita quando l’amore si spezza, ma si fermò per mancanza di tempo. Si tratterebbe di Lettres portugaises, pubblicate per la prima volta a Parigi nel 1669 e ripubblicate fino al 1800, ma nessuno sa chi le abbia scritte. È uno dei più fitti misteri nella storia dell’editoria. L’ipotesi più affascinante è che le abbia scritte Mariana Alcoforado, monaca, che visse tutta la sua vita nel convento della Nostra Signora della Concezione a Beja, nel Basso Alentejo, al confine con l’Andalusia. «Si era innamorata, Mariana. Si era innamorata – sostiene Gaia Manzini nel bellissimo articolo Le cerimonie dell’addio, pubblicato su Il Foglio del 7-8 maggio 2022 – di un ufficiale francese, un certo Noël Beuton, conte di Chamilly, di stanza in Portogallo. E allora Mariana gli scrive; scrive tanto e scrivendo rompe il silenzio nel quale è stata costretta a vivere. […] Scrive in modo appassionato. Ha uno stile intrepido, impensabile per una religiosa e una voce incisiva e lirica che tanto affascinò Rilke. Le lettere sono cinque. L’ultima è una lettera di addio che inizia da una restituzione. Mariana, consapevole del suo amore non corrisposto, fa restituire al suo amante i regali con cui lui l’aveva omaggiata: un ritratto e dei braccialetti. È bellissimo questo dettaglio. È come quando un innamorato regala una sua foto all’amata, quasi a dire: ‘Eccomi sono io, non ti dimenticare di me’. E, ancora, i braccialetti: il più delicato ornamento femminile – meno impegnativo di un anello e meno impositivo di una collana. L’ornamento per una femminilità rivelata solo all’amante. I braccialetti che una religiosa non potrà mai indossare, se non nei loro incontri segreti […]. Si vorrebbe che quanto c’è stato non fosse mai accaduto» (p. 13).

Maria Rainone, insegnante in pensione, anch’essa assidua frequentatrice del Circolo insieme al suo marito, Roberto Le Pera, riferendosi al contesto storico delle sante e indemoniate, rammentò la storia di Marianna de Leyva, la Monaca di Monza, Gertrude. di Promessi sposi, che da una finestra aveva visto la prima volta l’amante e da quel momento non aveva pensato ad altro, dice Alessandro Manzoni. Tutti noi sappiamo benissimo che spesso ci si convince di amare, perché amare è bellissimo. È bellissimo anche fingere di amare. È una prova attoriale che tira fuori il meglio di noi e lo si fa sempre con le migliori intenzioni, con il recondito desiderio di innescare una metamorfosi che ci trasformi in creature straordinarie.

Al microfono, infine, p. Jorge Campelo de Albuquerque e Melo, francescano brasiliano e dottorando romano, affabile ospite della fraternità conventuale del «Sacro Cuore», che focalizzò l’attenzione dei presenti sul volto femminile della Chiesa in Brasile. «Non si può – constatò – capire la Chiesa brasiliana senza le donne». La costatazione che richiamò le parole di Papa Francesco pronunciate nella lunga intervista «senza rete e senza filtri» sul volo di ritorno da Rio de Janeiro a conclusione della 28ª Giornata Mondiale della Gioventù (28.07.2013): «Una Chiesa senza le donne è come il Collegio apostolico senza Maria. Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, della Madonna; quella che aiuta a crescere la Chiesa! Ma pensate che la Madonna è più importante degli Apostoli! E’ più importante! La Chiesa è femminile. […] Il ruolo della donna nella Chiesa non solo deve finire come mamma, come lavoratrice…, limitata». Non riduciamo allora l’impegno delle donne, ma, anzi, promuoviamo il loro ruolo attivo nella comunità ecclesiale.

La tavola rotonda si concluse con la lettura di un brano finale della Lettera apostolica «Mulieris dignitatem» sulla dignità e vocazione della donna di Giovanni Paolo II (n. 31). Seguirono quindi le comunicazioni del presidente Luigi Cimino, relative al Circolo, la foto comune accompagnata dal brano musicale di ispirazione medievale «Bransle des chevaux» di Thoinot Arbeau, tratto dall’album «A la via!». E un grazie corale a Federica Astarita: la sua torta fu squisita!

Piotr Anzulewicz OFMConv


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