«Silence»: 7ª Serata cinematografica con «cocktail» (122)
Apr
27
Ora: 19-21
Luogo: Salone «S. Elisabetta d'Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido

La 7ª Serata cinematografica, con la proiezione del film «Silence», la cineconversazione «Il cristianesimo – “saper morire per Cristo”» e il «cocktail», ideata all’interno della 6ª edizione del CineCircolo con il motto: «I giovani con ‘sorella’-‘madre’ Terra per immagini», l’edizione ispirata al documento preparatorio del prossimo Sinodo dei vescovi: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», ma anche all’enciclica Laudato si’ di papa Francesco e alla preghiera-inno Cantico delle creature di frate Francesco, promossa dal Circolo Culturale San Francesco ed aperta generosamente, a titolo gratuito, a tutti, soci, sostenitori, amici, vicini e lontani − la 122ª Serata di seguito, tra quelle cinematografiche e quelle conviviali, con decorrenza dal 10 gennaio 2014, senza contare altri eventi e iniziative.
«Silence»
Regia: Martin Scorsese. Genere: Drammatico, storico. Paese: USA. Anno: 2016. Durata: 161′
Trama: Giappone, 1633. Una violentissima persecuzione sta stroncando il cattolicesimo, i fedeli vengono uccisi o costretti all’abiura. In Portogallo due missionari gesuiti, p. Rodriguez e p. Garupe, vengono informati che il loro maestro spirituale Ferreira è scomparso e ottengono il permesso di andare a cercarlo. Sarà un’odissea dolorosa, tra la repressione dei signori feudali, la prigionia, i tradimenti, il confronto con un mondo profondamente estraneo alla loro cultura, con il rischio non solo di perdere la vita, ma anche la fede più incrollabile.
♦ Cineconversazione
Il cristianesimo – “saper morire per Cristo”
♦ Programma della Serata
- Video «La persecuzione dei cristiani» (1:40′)
- Note sul film e argomento della cineconversazione
- Proiezione
- Cineconversazione: «Il cristianesimo – “saper morire per Cristo”»
- Comunicazioni relative al Circolo ed annuncio del prossimo evento
- Recita della Preghiera di Papa Francesco per i giovani (Sinodo 2018)
- Foto di gruppo e «cocktail» [In sottofondo il video musicale di Raffaele Falco: «Loda» (5:09′)]
♦ Recensioni
✺ Quando s. Francesco Saverio portò il cattolicesimo in Giappone nel 1549, era dura imbattersi in persone convertite. Saverio ebbe molte difficoltà a imparare il giapponese e, inizialmente, si affidò alle immagini, di solito illustrazioni di Cristo, di Maria e dei santi, per raccontare la storia cristiana. Morì tre anni dopo l’inizio della sua missione in questo paese. Tuttavia si convertirono in centinaia di migliaia e la Chiesa giapponese prosperò per più di una generazione, fino all’inizio delle persecuzioni. Nel 1597, 26 cristiani furono crocifissi a Nagasaki. A partire dell’anno seguente e fino agli anni ’30 del secolo successivo, altri 205 nel paese furono martirizzati. E, dall’arrivo in Giappone, nel 1639, dei due preti-eroi portoghesi, di cui parla anche Shusaku Endo nel suo romanzo Silenzio, del 1966, ne vennero uccisi altri 206 con la colpa di essere Kirishitan.
Quello che le autorità giapponesi ritenevano essere un contributo commerciale con i paesi occidentali, da quel momento venne considerato una minaccia letale al patrimonio culturale giapponese. L’opera missionaria era pericolosa, e quei finti preti, basati su veri missionari, erano totalmente pronti a morire per Gesù. Ma il libro di Endo (e la sua nuova versione cinematografica di Martin Scorsese) non parla di martirio, ma su come evitarlo. Le autorità vogliono, soprattutto, l’apostasia (convinta o non), e la maggior parte dei personaggi principali diventano apostati.
Ora, a distanza di cinque secoli, è facile guardare con disdegno un prete che conosce i rischi e abbandona la vocazione della fede a cui la sua ordinazione lo aveva vincolato. Scorsese sembra chiedersi: Cosa fareste se vi venisse chiesto di calpestare un’immagine sacra di Gesù, se, così facendo, salvaste la vita di altri? I Kirishitan sono sospesi a testa in giù sopra una fossa, con delle piccole incisioni sul collo, sanguinando lentamente a morte, e solo voi potete salvarli. Non dovete fare altro che pestare il piede su di una fumi-e – una specie di icona demoniaca su cui è raffigurato Cristo. Cosa fareste voi?
Bene, quelle centinaia di veri martiri giapponesi, tutti quanti santi, morirono per il loro rifiuto a diventare apostati – perché credevano che le loro vite, nonostante una fine agonizzante, fossero redente da Cristo. Li aspettava la gioia eterna.
Endo era un cattolico convertito, ed è giusto chiedersi quanto completa fosse la sua conversione. Martin Scorsese è cattolico dalla nascita, ma, nonostante il suo incontro con Papa Francesco durante il lancio del suo film, non lascia trasparire in nessun modo la sua fede cattolica.
Il libro riprende molto il romanzo anti-coloniale di Joseph Conrad, Cuore di tenebra (1899), la storia di un uomo di nome Marlow che fa un viaggio in Congo in cerca di un commerciante d’avorio di nome Kurtz, descritto come ”emissario della pietà, della scienza, del progresso”, ma venerato dagli indigeni come un dio. Il libro di Conrad ha ispirato anche Apocalypse Now, il film del 1979 di Francis Ford Coppola, in cui un capitano dei servizi segreti dell’esercito statunitense va nel Mekong in cerca di un colonnello ribelle, anche lui di nome Kurtz, divenuto un dio per i Montagnard. Entrambi i Kurtz muoiono pronunciando la famosa frase: “L’orrore! L’orrore!”.
Cosa ha a che fare questo con Silenzio di Scorsese? I due preti gesuiti, Sebastiao Rodrigues (Andrew Garfield) e Francisco Garrpe (Adam Driver), arrivano in Giappone per cercare p. Cristovao Ferreira (Liam Neeson), che si dice sia diventato un indigeno, al punto da diventare apostata e sposarsi. Quando Endo lesse Cuore di tenebra, evidentemente rimase impressionato dall’organizzazione fittizia con cui corrisponde Kurtz, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge, perché questa è sicuramente una parte di quello a cui equivale l’attività missionaria in ogni parte del mondo – perlomeno, nella mentalità indigena – e, probabilmente, Endo amava Cristo, ma non era particolarmente appassionato dei cristiani. Quando Marlow/Rodrigues/Garfield, alla fine, si confronta con Kurtz/Ferreira/Neeson, è l’uomo più anziano, ex insegnante di Rodrigues in Portogallo, che assicura l’apostasia dell’uomo più giovane.
Il film di Scorsese è, di fatto, la seconda trasposizione sul grande schermo del libro di Endo. La prima fu Chinmoku (Silenzio in giapponese) di Masahiro Shinoda, del 1971. Due attori americani impersonarono i preti portoghesi, ma con una differenza: entrambi erano in grado di pronunciare la maggior parte delle loro battute in giapponese, mentre Garfield, verso la fine del film di Scorsese, ne mastica appena qualche parola. Forse, la cosa più sorprendente riguardo al primo film è la scelta di Tetsuro Tamba (che aveva interpretato Tanaka “Tigre” nel film di James Bond Si vive solo due volte) per il ruolo di Ferreira. Come dire: ecco qua un gesuita portoghese che è diventato un vero indigeno!
Il film di Shinoda ha una durata ragionevole di due ore, quello di Scorsese quasi tre; questo perché è ripetitivo e non perché debba raccontare di più rispetto a Shinoda. Quando il libro raggiunge l’apice, Rodrigues sente la sabbia che gli cede sotto i piedi.
Dai più profondi recessi del mio essere, un’altra voce si fece sentire in un sussurro. Supponendo che Dio non esista…
Era una fantasia spaventosa. Se non esiste, quanto diventa tutto assurdo! Quale assurdo dramma diventano le vite di Mokichi e di Ichizo, legati al palo e lambiti dalle onde. E i missionari che hanno passato tre anni solcando i mari per giungere in questo paese… che illusione è stata la loro! Anch’io qui, a vagare su desolate montagne: che assurda situazione!
Silenzio di Scorsese non è un film cristiano fatto da un regista cattolico, bensì una giustificazione della mancanza di fede: l’apostasia, se salva delle vite, diventa un atto di carità cristiana, proprio come il martirio diventa quasi satanico se inasprisce le persecuzioni. “Cristo sarebbe diventato un apostata a causa dell’amore”, dice Ferreira a Rodrigues e, naturalmente, Scorsese è d’accordo.
La visione di Silenzio è consentita ai bambini solo in presenza di un adulto, per via delle molteplici scene di tortura. Molti americani e britannici si sono visti rubare la scena per il film da un superbo cast giapponese che include: Yosuke Kubozuka nel ruolo di Kichijiro, un Giuda che guadagna molto più argento rispetto a quello originale; Issei Ogata nel ruolo del principale antagonista dei missionari, l’inquisitore Inoue; Shin’ya Tsukamoto (Mokichi) e il grande Yoshi Oida (Ichizo), nel ruolo dei paesani cattolici martirizzati dall’inquisitore. Non sorprenderebbe se uno tra Oida o Kubozuka ricevesse una nomination all’Oscar come attore non protagonista. Nel caso, si tratterebbe, probabilmente, dell’unico accenno al film da parte dell’Accademia. (Brad Miner)
✺ Per essere il film di una vita, Silence sembra assai poco un’opera di Martin Scorsese. L’ambientazione in un Giappone medievale, lontanissimo nel tempo e nello spazio dalle strade di Little Italy e dai suoi gangster; il ricorso a volti attoriali nuovi, con cui finora non aveva mai lavorato, in luogo dei soliti, fedelissimi alter ego (da De Niro a Di Caprio); l’approccio visuale sorprendentemente ieratico, contemplativo, più interessato alla composizione dell’inquadratura che al virtuosismo della ripresa e all’ipereccitazione della messa in scena. A pensarci bene però, la straordinaria carriera di questo regista è disseminata di mille variazioni sul tema, di continue sperimentazioni, di sincretismi originali. Già L’ultima tentazione di Cristo e Kundun, per dire, erano film di ambientazione assai particolare per il cineasta di Elizabeth Street. Il secondo, sorta di biopic sull’ultimo Dalai Lama, presentava anche interessanti varianti di poetica e stile: era la prima volta che Scorsese si misurava con un tipo di sensibilità agli antipodi rispetto alla sua e con le forme della spiritualità orientale.
Tuttavia, per capire meglio Silence, è da un altro film che bisogna partire, da L’età dell’innocenza, pure questo tratto da un romanzo e sceneggiato dal regista insieme a Jay Cocks. Già allora Scorsese aveva sfoggiato una regia incredibilmente controllata, un rigore compositivo e uno stile analitico al limite del maniacale, dove la compattezza geometrica della scena, la sua monolitica e non scalfibile realtà, costituiva il correlato oggettivo e formale di un implacabile sistema di regole sociali che mortificava e ingabbiava l’autentico sentire dei personaggi. Ecco, l’ingabbiamento. Lo vediamo all’opera più volte in Silence. Come una forza viva e disumana: quando i due preti gesuiti, i padres, arrivano clandestinamente in Giappone, in un villaggio di pescatori, e sono costretti a nascondersi in una capanna abbandonata di pietra e di paglia, per non dare nell’occhio. Poi quando vengono catturati e messi dentro una scatola di legno da trasporto; quindi quando vengono rinchiusi dentro una cella fatta di terra e di canne di bambù.
E anche Silence in fondo mette in scena la tragedia di un uomo arrogante. Un uomo convinto di poter cambiare il mondo, prima di soccombervi. Non è un caso che quell’uomo sia anche un uomo di Dio. Non lo era forse anche Charlie di Mean Streets, che si credeva erede di s. Francesco? O Travis di Taxi Driver, determinato a ripulire quella fogna di città infernale che è la New York dei ’70, neanche fosse un angelo sterminatore? Personaggi votati alla causa, ma la causa di chi? Come rivela un altro dei grandi personaggi scorsesiani, il Frank/Nicolas Cage di Al di là della vita (altro film che sembra arrovellarsi nelle stesse questioni di questo), il confine tra ispirazione divina e allucinazione è pericolosamente sottile. Lo stesso Gesù del L’ultima tentazione non viene forse considerato un pazzo all’inizio? Chi può dire alla fine se la voce off che p. Rodrigues sente, o pensa di sentire, sia davvero quella di Dio e non invece la sua? Chi può stabilire se prima di calpestare il fumi, la tavoletta raffigurante il Cristo, il gesuita abbia davvero sentito la voce misericordiosa del Creatore o quella pavida della sua coscienza che gli intima di abiurare e di salvare così la vita, sua e quella di altri innocenti?
C’è questa insostenibile ambiguità della fede che attraversa Silence dall’inizio alla fine. Dopotutto il film parte come una detection: due gesuiti dovranno recarsi in Giappone per scoprire se davvero il loro padre spirituale ha abiurato per salvarsi la pelle (i nipponici del Seicento consideravano la buona Novella assai pericolosa). In realtà l’oggetto di questa ricerca sarà la natura stessa del loro credere, dunque di Dio. Scorsese coglie del romanzo di Endo, basato peraltro sulla storica realtà dei lapsi (i preti apostati, letteralmente gli scivolati, quelli che non ce l’hanno fatta a sopportare le persecuzioni e hanno abiurato la loro fede), il nocciolo dei dilemmi che da sempre lo coinvolgono. Fino a che punto, torna a chiedersi il regista, è lecito seguire Dio se così facendo rechiamo sofferenza agli uomini? Vale di più la misericordia – in fondo il comandamento supremo che Gesù trasmette ai suoi discepoli, Ama il prossimo tuo come te stesso – o la fedeltà alla Parola, che pure invita ad evangelizzare il mondo perché è Verità? La questione non è solo teologica perché tocca qualsiasi ideologia e credo. E’ anche assai moderna, sembra di leggere in filigrana i principali nodi della Chiesa di Francesco, tormentata al suo interno da analoghe questioni di natura etica e dottrinaria (pensiamo ai conflitti su divorzio, eutanasia, aborto).
La soluzione optata da Scorsese è se si può più problematica: per amore dell’uomo sì, si può e anzi si deve rinnegare la propria fede. Meglio, occultarla. Rinunciare così anche alla pratica della condivisione e dell’indottrinamento, in definitiva all’Eucarestia e al proselitismo. La fede deve restare come confinata in una dimensione privata, meglio ancora se intima, interiore. Il finale azzarda questo. Non che Scorsese neghi l’altra via, quella dei martiri, il cui sangue come ci ricorda è il seme della Chiesa. Ma si tratta anche in questo caso di una scelta individuale. Non a caso qui tutto il destino della Chiesa in Giappone si riduce alla sorte di due preti, che però prenderanno strade diverse. Scorsese sposta in ogni caso la religione per far posto alla persona. Con tutte le contraddizioni e le questioni aperte del caso. […]
Visivamente è molto bello e molte scene hanno notevole qualità pittorica e potenza allegorica. D’altra parte i contributi tecnici di Rodrigo Prieto (fotografia), di Dante Ferretti e di Francesca Lo Schiavo (scenografia) non si discutono. Nulla da ridire nemmeno sul talento di Andrew Garfield e di Adam Driver o sulla maestria di Liam Neeson, ma mai come stavolta il peso dell’attore deve fare i conti con una messa in scena dall’ingegneria implacabile. Scorsese rimesta nelle sue conoscenze del cinema nipponico – Kobayashi, Mizoguchi, Ozu e Kurosawa – facendone non tanto un’indicazione geografica (siamo in Giappone dopotutto), ma la chiave di volta formale e ideale di tutta l’operazione: il mondo vince sempre, però non c’è singolarità che, pure se ingabbiata, venga assimilata del tutto. Qualcosa di unico, vitale, resta sempre. Questo vale persino nel grande cinema mainstream, che Scorsese continua a frequentare senza mutarsi, infilandovi semmai una volta di più il virus dell’autorialità, incubando pezzi di pensiero, di poetica personale. Vivendo la contraddizione, facendone alimento creativo, antidoto a una coerenza marginale. Rischiando, tra la fedeltà a Dio e quella verso gli uomini, ancora la seconda. Scegliendo comunque di rimanere fedele a se stesso. (Gianluca Arnone)
✺ Lo ha detto lui, Martin Scorsese himself, che se Silence tratta questioni di scottante attualità, nell’era dell’ISIS e dei Trump, è una coincidenza. Perché il film – a lungo cercato, studiato, ostinatamente voluto – sarebbe potuto anche arrivare qualche anno fa: in un momento storico non lontanissimo eppure diverso; un momento dove la questione dello scontro tra culture e fedi, della volontà di conquista e degli arroccamenti integralisti, era ancora in una fase meno esplosiva e borderline col disastro. E allora facciamo come dice lui: limitiamoci a considerare Silence fuori da ogni contingenza temporale, come un film che si occupa di faccende spirituali (ma secolari, nel senso che sono secoli che si affrontano) riguardanti l’eterno dialogo tra l’uomo e la fede, le sue manifestazioni, la sua interiorizzazione. Il film di un regista che il rapporto con la Chiesa e il Divino l’ha sempre messo dentro i suoi film, e quasi sempre in maniera conflittuale, lacerante, ossessiva. Da questo punto di vista, Silence non fa eccezione. Il racconto del viaggio in terra giapponese del giovane padre gesuita Sebastião Rodriguez – viaggio che è un po’ ricerca di un mentore perduto, un po’ missione evangelica, e che si trasforma in una Via Crucis che lo metterà di fronte alle complessità e alle contraddizioni del suo agire – ossessivo lo è di certo. Conflittuale e lacerante, non parliamone nemmeno: almeno per i suoi protagonisti.
Nel personaggio di Andrew Garfield, Scorsese sintetizza e tensioni, facendone l’esploratore del (suo) rapporto con la religione. P. Rodriguez prega, piange, ama, soffre. Benedice, dice Messa, comunica e confessa. Si esalta e si commuove di fronte alle comunità che tengono accesa la fiammella della fede in Cristo, nonostante le repressioni cruente del governo nipponico che l’avversa; si dispera quando i “suoi” fedeli muoiono da martiri, mentre lui si nasconde, per sopravvivere in nome della sua missione. P. Rodriguez fugge, patisce il freddo, la fame, il caldo, la sete: la sua è una vera Via Crucis. Tanto che vede- letteralmente – il volto di Cristo riflesso nel suo. Si sente prescelto, messo alla prova; accarezza con vanità e allucinata perversione il pensiero del martirio, dell’essere il prescelto per un nuovo amaro calice. Tutto ripiegato su sé stesso, sulla sua personale visione di Dio e del suo calvario, patisce la sofferenza altrui da lui causata, ma ne è spettatore; in fondo, la considera il prezzo da pagare per la sua missione e la sua fede, assolvendosi da ogni peccato con più indulgenza di quanto assolva – con fastidio crescente – il fragile Tadanobu Asano, che abiura ogni volta che vede la sua vita in pericolo.
Rodriguez soffre, e pensa gli si possa aprire la via al misticismo grazie a questo, e non lascia spazio alla Misericordia se non in extremis, quando cede ai suoi persecutori per salvare vite innocenti, abiurando formalmente il suo credo: calpestando, letteralmente, un’immagine sacra. Ma, anche in quel caso, il suo gesto è vissuto quasi egoisticamente, stoicamente: è la sua croce. La sua prospettiva cambia solo quando ritrova un maestro che lo mette di nuovo di fronte a sé stesso, non all’immagine cristologica che di sé ha avuto, e alla natura violenta e arrogante dell’imperialismo missionario. Un incontro che lo ridimensiona, lo turba, lo relativizza; che gli illustra nuove possibilità (per quanto obbligate) nel nome di un apertura mentale e di un ripiegamento nel privato che sono possibilità di accrescimento e illuminazione.
Ma davvero il senso di Silence è tutto qui? Davvero la montagna del cammino arduo e della mortificazione dello spirito e della carne, attraverso le scelte fatte e quelle ignorate, ha partorito il topolino del relativismo culturale? Di una fede che può e deve essere vissuta come fatto privato, rinunciando a tutti i suoi segni esteriori, alla Chiesa delle icone e dei sacramenti e degli ordini, e che proprio per questo rimane sempre forte dentro di noi? Davvero il lato buddista di Scorsese arriva a prevalere sul formalismo cattolico, e propone, semplicemente, il monachesimo interiore come sostituzione unica e possibile della militarizzazione gesuita della fede? Sì, sembra proprio che sia così. Certo, oggi tutto questo – che pure a prima vista, perlomeno da un punto di osservazione laico, appare ovvio e scontato – è molto importante. Certo, tutto questo è il punto di arrivo del percorso spirituale di un uomo costato anni di riflessioni e forse patimenti.
Le conclusioni di un film come Silence, e la sua narrazione così intransigente, sollevano però dei dubbi. Perché la fede è un fatto così privato, se è nel Silenzio che va coltivata, e se la Misericordia è la virtù (umana prima ancora che spirituale) da preservare e anteporre, non è del tutto chiaro il motivo per il quale Scorsese abbia voluto dare pubblica e sacrale messa in scena a questo discorso. Una messa in scena lineare e ostica, priva di qualsiasi guizzo che possa dare adito ad accuse di barocchismo o manierismo, scorsesianamente monacale; che nella sua faticosa ripetizione e nella sua eccessività spirituale, non fa sconti allo spettatore. Scorsese non a torto pensa probabilmente che non ci sia illuminazione senza fatica, ma l’impressione è che – per quanto in buona fede – abbia abbondato con la seconda per mascherare la debolezza della prima. E la fatica di Silence, fisica e mentale, non si risolve nemmeno quando i nodi arrivano al pettine. (Federico Gironi)
✺ Da quello che è considerato un capolavoro della letteratura giapponese, scritto nel 1966 da Shusako Endo (e già diventato film – dicono bellissimo – nel 1971, presentato a Cannes con il titolo Chinmoku, per la regia del grande Masahiro Shinoda), Scorsese – ex seminarista, non scordiamolo – torna a quello che è uno dei temi ritornanti e più profondi del suo cinema, il rapporto tra i misteri della fede e il comportamento dell’uomo (questo sin dai tempi di Mean Street).
Il silenzio cui si riferisce il titolo è certamente quello di un Dio “assente” (“Perché tu non ci sei?”, urla dentro il suo animo p. Rodriguez), ma può benissimo riferirsi alla condizione dei cristiani perseguitati (i kakase kirishitan, ovvero i cristiani nascosti) o a quella di p. Ferreira, spinto all’apostasia (“Tutti i nostri progressi sono finiti in nuove persecuzioni”) e poi fedele osservante delle tradizioni nipponiche. Lo scontro tra le ragioni del fervore missionario e quelle (peraltro non prive di una loro logica e razionalità) dei signori del Giappone ha come teatro il corpo e la mente dei due religiosi, via via più disperati, oppressi ed esacerbati da una situazione complicata, contraddittoria e tragica (“Il sangue rosso dei preti è sgorgato a fiumi”). Perché il dilemma cruciale è negare la divinità del Cristo e salvare tanti innocenti o seguitare a professare la propria fede condannando al martirio non solo se stessi, ma tanti cuori semplici e magari confusi.
Sono due ore e quaranta di cinema concentrato su questo tema, cui la magistrale mano di Scorsese questa volta, anche quando ritaglia scorci meravigliosi o palpitanti scene di spettacolare violenza, aggiunge plumbea e quasi “claustrofobica” (non se ne esce mai dai travagli dell’animo dei due gesuiti) cupezza. Magnifico il trio dei protagonisti, con Garfield che ha molto irrobustito (anche nel war movie di Gibson lo si nota) le sue spalle di ex giovanottino prodigio, Adam Driver che sembra aver addirittura ieraticamente scarnificato il suo corpo lungagnone quasi fosse un vero mistico e un Liam Neeson dolente come un gigante sconfitto e domato. Siamo di fronte a uno spettacolo maiuscolo, forse un po’ “monocorde” a causa della sua lunghezza (decisamente eccessiva), che temiamo non troverà folle plaudenti ad amarlo. Certo, difficile da amare, ma facile da ammirare e stimare. (Massimo Lastrucci)
CURIOSITÀ SU SILENCE
Scorsese ha iniziato a lavorare ad un adattamento del romanzo di Shusaku Endo per il grande schermo insieme a Jay Cocks alla fine degli anni 80. Silence doveva essere il suo prossimo film, ma il destino aveva in serbo uno scenario diverso. Si sono presentati molti problemi, non ultimo quello che riguardava il reperimento dei finanziamenti per un progetto così complesso, e la sceneggiatura è finita in un cassetto. Ci sono voluti oltre 25 anni per completare il lavoro.