«La sposa promessa»: 4ª Serata cinematografica con «cocktail» [157]
Mag
03
Ora: 19-22
Luogo: Salone «S. Elisabetta d'Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido

Serata cinematografica, con la proiezione del film «La sposa promessa» di Rama Burshtein, la conversazione «Il valore delle voci femminili all’interno della comunità» e il «cocktail», la 4ª Serata ideata all’interno della 8ª edizione del CineCircolo con il motto: «A servizio della pace e della fratellanza, per immagini», ispirata ai tre grandi testi: 1. Messaggio «La buona politica è al servizio della pace» di Papa Francesco per la celebrazione della 52ª Giornata Mondiale della Pace (1.01.2019), 2. «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», firmato da Papa Francesco e dal Grande Imam di al-Azhar Aḥmad al-Ṭayyib ad Abu Dhabi (4.02.2019), 3. Preghiera-poesia «Cantico delle creature» di frate Francesco d’Assisi (FF 263), promossa dal Circolo Culturale San Francesco ed aperta, a titolo gratuito, a tutti: soci, sostenitori, amici, credenti e «laici», vicini e lontani – la 157ª di seguito, tra quelle cinematografiche e quelle conviviali, con decorrenza dal 10 gennaio 2014.
«La sposa promessa»
Regia: Rama Burshtein. Genere: Drammatico. Paese: Israele. Anno: 2012. Durata: 90′
Trama: Shira, appartenente a una famiglia di ebrei osservanti di Tel Aviv, è promessa in sposa a un brillante studente di una scuola religiosa. La storia d’amore sembra avviarsi verso una felice conclusione, finché l’improvvisa notizia della morte della sorella non complica la situazione…
♦ Conversazione
Il valore delle voci femminili all’interno della comunità
♦ Programma della Serata
- Video musicale «Quello che le donne non dicono» di Fiorella Mannoia (4:19’)
- Parole di benvenuto e presentazione del programma
- Note sul film e sul tema della cineconversazione + video «La luce delle donne illumina lo Shabbat» (6:49)
- Proiezione
- Cineconversazone «Il valore delle voci femminili all’interno della comunità» + «Lo Shabbàt è femminile» (7:30’)
- Comunicazioni relative al Circolo
- Recita della Preghiera per la pace (Papa Francesco, Giardini Vaticani, 8 giugno 2014)
- Foto di gruppo e cocktail [In sottofondo: videoclip «Elisa stupisce con Hallelujah» (7:26’)]
❤ Shira Mendelman (Hadas Yaron) ha diciotto anni ed è la figlia più giovane di una famiglia di ebrei ultraortodossi di Tel Aviv. Come ogni giovane donna, Shira sogna di diventare una buona moglie e pare che questo sogno presto si avvererà con un giovane della sua stessa età e di stessa estrazione sociale, ma, durante le festività del Purim, la sorella maggiore di Shira, Ester (Renana Raz), muore di parto dando alla luce il suo primogenito, un maschietto. Yochay (Yiftach Klein), marito di Ester, colpito dal lutto insieme a tutta la famiglia della defunta moglie, è comunque costretto a pensare di doversi risposare in un immediato futuro.
Rama Burshtein, regista di La sposa promessa è al suo primo lavoro di regia, pensato e realizzato con grande professionalità e cura estrema nell’aver saputo raccontare un dramma avvenuto in una famiglia chassidica, dramma che ha innescato una dinamicità di situazioni cui tutta la comunità ultra–ortodossa ha partecipato con convinzione e determinazione. La morte di Ester ha messo Shira in primo piano, come possibile futura moglie di Yochay, possibilità che la stessa famiglia della giovanissima Shira alla fine ha giudicato la migliore soluzione per garantirsi la vicinanza del vedovo Yochay e del figlioletto. L’intreccio di situazioni, di scelte, ma soprattutto l’emergere di muti sentimenti in un dialogo comunitario chiuso al suo interno, strutturano la trama di una storia che racconta una cultura, quella chassidica, che se pur regolata da norme rigide, ma chiare, risolve le questioni al suo interno, con il conforto di una fede profonda e la catarsi di riti che rappresentano momenti di grande significato per il riconoscimento di un’identità d’appartenenza comunitaria. Il rituale della circoncisione, il rituale di richieste d’aiuto durante le festività del Purim, il rituale della preghiera e del matrimonio, ma anche il colloquio di confronto tra le parti, sono tutti rituali con caratteristiche strutturali paradigmatiche, integralmente legate ai valori centrali e alle preferenze collettive di una cultura o di una società. La Burshtein, nonostante il suo chiaro manicheismo, non cade nella trappola di pronunciare giudizi, né negativi né positivi. Racconta e basta le cosmologie della sua cultura, della sua identità sociale e religiosa attraverso la metabolizzazione del dolore, le scelte sofferte, il forte senso d’appartenenza e d’amore, sentimenti che la regista riesce a porgerci nei volti di Shira e di tutti i membri della sua famiglia. La sposa promessa ha così un senso profondo di valori all’interno di un sistema di relazioni familiari, sociali e religiose pregnanti di un lessico tacitamente condiviso. Alla fine la scelta di Shira mette in discussione il rigido e l’indiscusso pensiero ideologico, modello dell’intera comunità chassidica. Rama Burshtein riesce a rendere comunque con una delicatezza commovente i codici della sua cultura, il significato dei colori, dell’abbigliamento, dei cerimoniali, la vita pubblica e religiosa, ma in particolare, La sposa promessa è un trionfo sommesso di sentimenti individuali e collettivi, è un prezioso documento antropologico che ci fa comprendere quanto potrebbe essere sbagliato qualsiasi tentativo di traduzione o paragone con altre culture. Un film struggente ed insieme entusiasmante, per le splendide inquadrature, l’illuminazione dai i toni morbidi, le sequenze, i costumi e l’eccellente regia che sa ben calibrare gli effetti di una recitazione mai sopra le righe. Coppa Volpi alla 69ª Mostra Internazionale di Venezia a Hadas Yaron, come migliore attrice, La sposa promessaè assolutamente da non perdere. (Rosalinda Gaudiano)
❤ ❤ Shira ha 18 anni e un fidanzato designato. Trovare marito è l’obiettivo più importante per una donna, nella comunità Chassidim di Tel Aviv dove vive. Shira non conosce il futuro coniuge: sua madre glielo mostra a distanza, al supermercato. A Shira piace e ne è felice. Durante la festività ebraica del Purim, sua sorella Esther, incinta di nove mesi, ha un malore e muore dopo il parto. Il marito di Esther resta vedovo con il bambino. La madre di Shira, distrutta dal dolore, cerca una soluzione. E pensa di trovarla proponendo alla figlia di sposare il cognato.
Gli ebrei ultra-ortodossi sono un’enclave in cui l’esistenza delle persone è regolata in ogni momento e scelta, e il rabbino capo è il riferimento per ognuno. Fill the void (in italiano La sposa promessa), primo e acuto film della regista Rama Burshtein, pone domande sulla dialettica individuo-comunità. La vicenda di Shira e del cognato-marito Yochay è anche la storia della nascita di un’attrazione, forse di un amore, e il racconto della maturazione di una donna che, riluttante, dice addio alla giovinezza. L’intelligenza della Burshtein sta nel mostrare le persone, in queste delicate fasi, e il loro perenne rapporto con le norme della società cui appartengono. Gli ebrei Chassidim sono un mondo a parte, rispetto a quello che noi presumiamo banalmente “libero”, ma in questa diversità siderale, circoscritti da rituali per noi lontanissimi, riconosciamo le nostre emozioni. Resta da capire quanto gli schemi interpretativi davvero si assomiglino.
Con intelligenza, la regista riduce al minimo la dimensione religiosa, quella che – solo apparentemente – potrebbe risultare la più assoluta. Il rabbino capo è il regolatore di rapporti della propria micro-società: dispensa consigli, denari, ripara il forno a un’anziana e prende decisioni ascoltando le opinioni di tutti. Così facendo, Fill the void ricorda l’origine della sfera religiosa: quella del mantenimento dell’ordine, ma quello degli Chassidim, minutamente strutturato, non è un ordine monolitico o irrispettoso delle scelte dei singoli. Shira viene ascoltata, le sue parole prese sul serio e le è concesso un profondo ripensamento. Shira però, come tutti i personaggi, vive un rapporto costante con le aspettative e i doveri comunitari. Alla fine forse si innamora di Yochay. Non lo sapremo mai fino in fondo, perché non sapremo mai fino in fondo quanta parte – nelle decisioni individuali – abbia la coercizione degli altri e quanto sia frutto del libero arbitrio del sentire, del pensare quindi dello scegliere.
Il pregio raro di Fill the void è descrivere un mondo apparentemente alieno, per molti aspetti sconosciuto (anche se fuori dalle case ultraortodosse c’è la città più popolosa di Israele, moderna, giovane, alla moda) e far emergere da quel mondo dei conflitti condivisi ovunque. Indecidibile quanto pesino la pressione della madre e la sua disapprovazione nel modellare, lentamente, il sentimento che Shira prova per il cognato. Difficile dire quanto tutti i fidanzamenti che vedremo saranno coronati da felicità e soddisfazione. Difficile scindere l’individuo dall’insieme, ma l’individuo non è, al tempo stesso, puramente schiacciato dal contesto. Shira (la brava Hadas Yaron premiata al festival di Venezia) è una ragazza di carattere, dice quel che pensa, non è remissiva. Anche a Yoachay piace far di testa propria, ma alla fine faranno ciò che è meglio per tutti. Scelta o sottile coercizione? O le azioni sono sempre in equilibrio tra questi poli?
Il film è costruito con precisione e sobrietà. La prima sequenza ci presenta “quel” mondo e in seguito i comportamenti dei protagonisti e i loro caratteri. Evitando totalmente lo psicologismo e l’introspezione, la regista mette in scena azioni semplici da cui – solo – si possono dedurre percezioni e ragionamenti. Anche nell’affrontare il lutto, evento da cui parte l’azione. Il dolore e la rimozione vengono vissuti all’interno dei codici, ma la loro espressione più profonda (che sempre e solo nelle regole stabilite può trovare risposta) non si lascia intrappolare totalmente dal misurato conforto dei riti e delle preghiere. “Riempire il vuoto” (la traduzione del titolo originale) significa perciò molte cose: il vuoto della morte, quello della scelta, quello del cuore. La società è sempre pronta a farlo al posto tuo, o ad aiutarti, o a condizionarti. Per questo i Chassidim di Tel Aviv non sono così alieni: la differenza è una questione di misura, non di sostanza. (Elisa Battistini)