«Gli invisibili»: 10ª Serata cinematografica con dibattito (91)

Mag

26

Ora: 19
Luogo: Salone «S. Elisabetta d'Ungheria» al lato destro della chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido

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La 10ª Serata cinematografica, con la proiezione del film «Gli invisibili» di Oren Moverman e la cineconversazione sul tema: «Cosa significa essere emarginati e “scartati” dalla società, privati persino del proprio passato e della propria identità, senza alcuna speranza di riscatto, reinserimento e riabilitazione?», la Serata ideata all’interno della 4ª edizione del CineCircolo, il cui leitmotiv è: «’Sorella’ Terra per immagini» e ispirata all’enciclica «Laudato si’» di Papa Francesco e alla preghiera-inno «Cantico delle creature» di frate Francesco, promossa dal Circolo Culturale San Francesco ed aperta a tutti − la 91ª Serata di seguito, tra quelle cinematografiche e quelle conviviali, a partire dal 10 gennaio 2014.

Gli invisibili

Regia: Oren Moverman. Genere: Drammatico. Anno: 2014. Paese: USA. Data uscita in Italia: 15 giugno 2016. Durata: 120′.

Trama: George è un uomo disperato. La vita sembra essersi dimenticata di lui. Senza un posto dove andare, si ritrova alla deriva tra le strade inospitali di New York City. Fallite tutte le possibilità di trovare un alloggio, cerca rifugio al Bellevue Hospital, il più grande centro di accoglienza per senzatetto di Manhattan. George entra in contatto con la crudele realtà degli emarginati. L’amicizia con uno degli ospiti del centro gli restituisce la speranza di poter ricostruire il difficile rapporto con la figlia che non vede da molti anni.

➠ Cinedibattito

Cosa significa essere emarginati e «scartati» dalla società, privati persino del proprio passato e della propria identità, senza alcuna speranza di riscatto, reinserimento e riabilitazione?

❣ Programma della Serata

  1. Ascolto dei brani dell’enciclica Laudato si’ relativi agli “scartati” della società (nn. 45, 152 e 158) [Musica di sottofondo tratta dal CD «Fratello Francesco». Spettacolo musicale. Musiche: Daniela Ricci. Testi: Daniela Cologgi. Solisti: Roberto Belli e Raffaella D’Ubaldi. Coro: Cristina, Raffaella. Roberto e Stefano) [Track 9]
  2. Note preliminari relative al regista Oren Moverman, la trama del suo film e il tema della cineconversazione («Cosa significa essere emarginati e “scartati” dalla società, privati persino del proprio passato e della propria identità, senza alcuna speranza di riscatto, reinserimento e riabilitazione?»)
  3. Proiezione del film «Gli invisibili»
  4. Impressioni, osservazioni e condivisioni sul tema della cineconversazione
  5. Comunicazioni relative al Circolo ed annuncio del prossimo evento
  6. Recita della «Preghiera per la nostra terra» (Laudato si’, n. 246)
  7. Foto di gruppo e «cocktail»

 Approfondimento

Nel mondo dei senzatetto

Scritto e diretto da Oren Moverman, Gli invisibili racconta la storia di George, un uomo sempre più disperato la cui vita va a rotoli. Con nessuno a cui rivolgersi, George si ritrova alla deriva per le strade di New York e, dopo aver esaurito tutte le possibili opzioni per un alloggio, si rifugia al Bellevue Hospital, il più grande centro di accoglienza di New York per uomini senza fissa dimora. Qui, in un ambiente difficile, sconcertante e pieno di anime in pena, stringe amicizia con uno stagionato conoscitore della struttura, cominciando a ritrovare la speranza di riallacciare i rapporti con la propria figlia.

Con la direzione della fotografia di Bobby Bukowski, le scenografie di Kelly McGehee, i costumi di Catherine George e le musiche supervisionate da Stephanie Diaz-Matos, Gli invisibili ha per protagonista l’attore Richard Gere, irriconoscibile nei panni disperati di George, un uomo costretto a vivere circostanze che nessuno vorrebbe mai sperimentare. Rimbalzando da una situazione all’altra, George è pressoché invisibile agli occhi degli abitanti della città che lo circondano. A spiegare meglio le intenzioni di Gli invisibili sono le parole del regista Oren Moverman:

«Tutto è cominciato quando ho incontrato Richard Gere a una festa. Ci conoscevamo dai tempi di Io non sono qui e mi ha parlato dei progetti che stava cercando di mettere in atto. Uno di questi mi ha affascinato perché era molto vicino al soggetto già pronto firmato da Jeffrey Caine, ma ho voluto lavorarci sopra per inserire le preoccupazioni e le tematiche su cui io e Richard volevamo fare il punto. Ne è venuta fuori la storia di un uomo che finisce in un centro per senzatetto, un punto di partenza insolito per raccontare di una catarsi. Proprio come accaduto con Oltre le regole. The Messenger e Rampart, i miei precedenti film ispirati a eventi reali, è stato per me importante parlare con persone che avevano vissuto la reale esperienza che mi accingevo a filmare. Volevo capire come ci si sente a non avere nulla: così, io e Richard ci siamo recati insieme nei centri per i senzatetto, abbiamo parlato con la gente, i volontari e tutti coloro che lavorano con i barboni.

Richard voleva da tempo realizzare il film. Era determinato a raccontare una realtà spesso dimenticata e a interpretarne il protagonista. Era per ciò essenziale trovare qualcuno da affiancargli che condividesse lo stesso amore per il progetto. Kyra Sedgwick, ad esempio, nell’accettare il ruolo di una donna senza fissa dimora ha voluto parlare con donne che conoscevano quel mondo da vicino, tirando fuori un personaggio molto realistico.

Empatia e compassione sono gli unici elementi di Gli invisibili che ci hanno guidato. Raccontiamo la storia di una persona a cui di solito non prestiamo attenzione dal momento che in una grande città come New York chiunque è troppo impegnato con il proprio dramma da vivere. Con il film, chiediamo per una volta di prestare attenzione a chi ci circonda – è già questo un atto di compassione – con la speranza che alla fine si guardi in maniera diversa a chi per mangiare fruga in un bidone della spazzatura.

Potrei definire Gli invisibili un’opera di osservazione, qualcosa di sperimentale. Dopotutto, è un lungometraggio che permette di trascorrere del tempo con qualcuno che mai avvicineremmo se non fossimo nella sua stessa identica condizione. Non forniamo risposte, ma ci sono molte domande. Non ci sono cattivi e non ci sono buoni: al centro del film, ci sono solo gli esseri umani».

 

Recensioni su Gli invisibili

1. La recensione più votata è positiva

Festival Internazionale del film di Roma-Cinema d’oggi. George è un uomo sulla sessantina che si ritrova alla deriva, senza una famiglia e senza un posto dove andare. Dopo vari tentativi infruttuosi di trovare una sistemazione, si reca al Bellevue Hospital, il maggiore centro di accoglienza per gli homeless newyorkesi. L’amicizia con un uomo di colore nelle sue stesse condizioni gli restituisce un po’ di speranza, ma i tentativi di riavvicinarsi alla figlia, che aveva abbandonato per un periodo di circa dieci anni, vengono purtroppo respinti sistematicamente dalla ragazza…

Una discesa all’inferno che ricorda per certi versi quella del protagonista de Gli equilibristi di Ivano De Matteo, interpretato da Valerio Mastandrea, ma girata con uno stile più spoglio e rigoroso. La precarietà esistenziale e l’indigenza diventano le chiavi attraverso cui leggere la difficile congiuntura socio-economica dei giorni nostri, ma Oven Moverman ha il coraggio di costruire un film su un personaggio solo, in tutti i sensi, affidandosi ad un Richard Gere assolutamente privo di glamour, presente in quasi tutte le sequenze del film e calatosi con grande efficacia e sensibilità in uno dei ruoli più dolenti e disperati degli ultimi anni. Un film che si potrebbe definire “bressoniano” non solo per il lavoro di “spoliazione” effettuato da Gere e da altri interpreti del cast, ma anche per il gusto di riprendere certe inquadrature attraverso porte, grate e altri divisori, tipico del maestro francese in alcune delle sue ultime pellicole, in particolare ne L’argent. A me è sembrata un’operazione nel complesso sincera e convinta da parte del divo americano e del regista di Oltre le regole – The Messenger, un film comunque mainstream, ma che ha il coraggio di mettere il dito su una piaga dolorante della nostra società, senza enfasi e senza sensazionalismi d’accatto, anche se alcuni personaggi secondari sono inseriti in maniera forse un po’ pretestuosa nel filo del racconto, che a tratti disperde l’interesse dello spettatore con episodi piuttosto superflui come l’incontro sessuale con la donna delle pulizie. L’interpretazione di Gere è da annoverare fra le migliori della sua carriera più recente e potrebbe facilmente venire ricompensata agli Oscar; fra i caratteristi si apprezzano Jena Malone nel ruolo della figlia, Kyra Sedgwick e Jeremy Strong, che si fa notare pur apparendo soltanto in un paio di sequenze nel ruolo di un altro senzatetto (si era già visto come assassino di Kennedy nel recente Parkland). Una New York livida che fa da sfondo, paragonabile a quella di Shame di Steve McQueen, film per certi versi affine a questo. (steno79)

 2. La recensione più votata delle sufficienti

L’America di Moverman è quella marginale e sconfitta della Kelly Reichardt di Old Joy e Wendy and Lucy, un paese delle opportunità non andate a buon fine e di una ricerca di valori umani (l’amicizia, l’amore filiale, l’attaccamento al proprio cane) che sembrano gli unici antidoti ad un nichilismo esistenziale da cui non pare esserci scampo.

Cacciato dall’appartamento fatiscente in cui era ospite a causa dello sfratto della sua amica affittuaria, George si ritrova a vagabondare per le strade di Manhattan passando dalla sala d’aspetto di un grande ospedale ad un affollato dormitorio pubblico, da un banco dei pegni in cui racimolare qualche soldo ad un ufficio dell’assistenza sociale dove riscattare le proprie credenziali, cercando nel frattempo di ricucire un improbabile rapporto con una figlia ormai adulta abbandonata anni prima. La sua condizione di homeless però, lo rende un reietto condannato a vivere ai margini della società, senza alcuna speranza di riscatto e privato persino del proprio passato e della propria identità.

Storie di ordinaria emarginazione in questo film indipendente del filmaker di origini israeliane, ma newyorkese d’adozione, Oren Moverman che puntano da un lato sul minimalismo documentaristico dagli umori blues del primo Cassavetes e dall’altro sul trasandato sex appeal di un incanutito e indomito Richard Gere. La povertà è una brutta bestia ed a poco serve addomesticarla e tenerla al guinzaglio, sembra ammiccare Moverman da una soggettiva perennemente estranea e sghemba che vorrebbe rintuzzare la cattiva coscienza di un pubblico occidentale che osserva con placida indolenza le sorti di chi non c’è l’ha fatta, definitivamente tagliato fuori da un circuito produttivo e sociale che esclude e che ghettizza, capace al più della compassione e del rispetto che si deve a quella parte di umanità finita nel cul-de-sac dell’assistenzialismo pubblico e della solidarietà privata, ma senza alcuna speranza di reinserimento e riabilitazione, men che meno meritevole dell’affetto dei suoi cari. Non ci sono intenti moralistici o reprimende politiche per un film in cui lo stesso autore si mette dalla parte di chi osserva con freddo distacco le dignitose peregrinazioni di un uomo senza speranza, di una risalita dagli inferi della solitudine e della incapienza di un reietto che cerca di ricominciare là dove si era interrotto il suo percorso di vita, tra una moglie morta di cancro nonostante i disastrosi sforzi economici che lo hanno condotto alla bancarotta ed un figlia ancora piccola abbandonata alle cure dei nonni e per questo perduta per sempre. L’America di Moverman è quella marginale e sconfitta della Kelly Reichardt di Old Joy e Wendy and Lucy, un paese delle opportunità non andate a buon fine e di una ricerca di valori umani (l’amicizia, l’amore, l’affetto filiale, perfino l’attaccamento al proprio cane) che sembrano gli unici antidoti ad un nichilismo esistenziale da cui non pare esserci scampo. Un esperimento cinematografico di programmatica sobrietà (camera a mano e piani fissi, colonna sonora ridotta ai minimi termini e realismo scenografico) con un titolo originale che allude ad una sospensione sine die del normale corso dell’esistenza e che utilizza il divo di turno senza abusarne, ma facendo comunque le inevitabili concessioni ad un irresistibile appeal fisiognomico, alle phisique du role di chi è condannato ad avere un rapporto privilegiato col mondo femminile (la barbona scambiata per amica, l’infermiera irlandese, l’impiegata statale, la figlia sedotta e abbandonata: una bellissima ed intensa Jena Malone) e per questo meritevole di quel trasporto empatico che tradisce un finale aperto alla commozione ed alla speranza. Tutto negli ultimi 10 minuti del film. E dire che c’è l’aveva quasi fatta!

Presentato al Toronto International Film Festival nel 2014 e distribuito in Italia solo nel 2016 a cura della Lucky Red. (maurizio73)

  3. Un tuffo hollywoodiano nella New York degli homeless

Richard Gere ha voluto essere una persona prima che un divo (o perfino un sex symbol, in anni ormai lontani e grazie ad American gigolo), e ha cercato, si è cercato, in più direzioni. Non è un fenomeno nuovo quello dei divi a cui non basta il successo e usano soldi e fama per sentirsi importanti e non dei bambocci da grande schermo, buttandosi in imprese benefiche o in avventure politiche. Il disagio di Gere sembra però sincero e il fatto di aver voluto un film difficile come Gli invisibili (Time out of Mind) ne è una prova. È in scena dall’inizio alla fine, ma sa compenetrarsi del ruolo di un homeless, uno dei tanti prodotti dalla crisi nel vasto seno della middle class, e regge il peso del film con pudore e misura.

Quel che non convince è piuttosto il regista, Oren Moverman, anche scrittore, giornalista, sceneggiatore, molto ambizioso, ma di non chiare, o ben supportate, vedute. Il suo film sembra seguire i dettami del “pedinamento del personaggio” alla Zavattini, affidandone però il ruolo non a qualcuno “preso dalla vita”, ma a un divo hollywoodiano che interpreta un nuovo povero, e non si dimentica mai che è Richard Gere. Moverman quindi punta tutto sull’ambiente, questo sì “preso dalla vita”: strade, metropolitane, bar, chiese, rifugi, uffici, dormitori, scantinati…

È la New York dei reietti, dei loro modi di sopravvivere, delle burocrazie assistenziali, delle piccole violenze e delle ancor più piccole solidarietà tra perduti, un mondo che il cinema ha affrontato raramente (molto spesso documentario e a volte con forza e pudore) e, anche quando ha girato nei luoghi e tra le persone giuste, quasi sempre con un’estetica da studio. E almeno una volta da fiaba come con Terry Gilliam, nella Leggenda del re pescatore.

Moverman sa cogliere la verità degli ambienti in cui il nuovo barbone Gere si aggira, cosciente della sua sconfitta umana e sociale, rispetto al modello americano, e confuso dagli incontri col sottomondo di quelli come lui tra i quali non sa ancora trovarsi, e con la burocrazia che si occupa dei poveri. L’incontro più ossessivo è quello con un chiacchierone mitomane nero che finisce per comportarsi come un suo doppio. Predilige le riprese dal basso e soprattutto quelle attraverso finestre e vetrine, un filtro che diventa la cifra stilistica, o almeno così egli sembra pretendere, del suo mestiere, della sua “scrittura”.

Non c’è però solo questo, non c’è solo l’aggirarsi sperduto di un nuovo povero nella marginalità che è di tanti, quella che sfioriamo ogni giorno facendo magari finta di non vederla. C’è anche la tradizione tutta hollywoodiana e americana del melodramma familiare vagamente freudiano, c’è l’usuale filigrana del romanzo che finisce con l’aggredire e svilire la forza del documentario. Il protagonista ha una figlia che non lo ama, ma che, alla fine, si pente, lo rincorre. Lo assisterà.

Tutto è bene quel che finisce bene, a Hollywood e a New York, ma di queste astuzie così predeterminate e insincere rispetto ai grandi problemi dell’ingiustizia e della miseria il cinema attuale ha poco bisogno, e chiede altre verità, nel documentario, nel romanzo e nelle ibridazioni possibili tra documentario e romanzo. Gere non è un homeless, è un attore travestito da homeless. Moverman non è Jack London, è un regista che sa navigare nel mondo dei ricchi, come tanti suoi colleghi, parlando dei poveri. Anche nel cinema, oggi più che mai, ci sono ibridazioni necessarie e ce ne sono di fasulle, di modaiole. L’oscillazione di Moverman è di quelle meno sincere, e dunque delle più opportunistiche, delle meno simpatiche. (Goffredo Fofi)

  4. Gere racconta la storia degli homeless della Grande Mela ne Gli invisibili

Dopo l’anteprima presentata a Roma da Richard Gere alla presenza di centinaia di senzatetto presso la mensa Sant’Egidio, è uscito al cinema Gli invisibili. Si tratta del nuovo e commovente film in cui l’attore statunitense interpreta George, un homeless di New York. La pellicola era inoltre tra i film fuori concorso al TaorminaFilmFest 2016 dove Richard Gere è attualmente impegnato come presidente di Giuria. Gli invisibili, il cui titolo originale è Time out of Mind, è stato scritto e diretto da Oren Moverman, regista di The Messenger ed Io non sono qui. Il film è prodotto dalla Cold Iron Pictures e distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Lucky Red. Lo scorso anno è stato presentato sia al Toronto International Film Festival che in Italia al Festival di Giffoni.

Le riprese sono state realizzate a marzo del 2014 e sono durate solo 20 giorni. La location scelta dal regista e dai produttori sono state le vie di New York. Ed è qui che si sviluppa la trama de Gli invisibili che vede protagonista George (Richard Gere), un uomo disperato che si ritrova a non avere un posto dove andare. Inizialmente vaga tra le strade della Grande Mela, ma dopo cerca rifugio al Bellevue Hospital. Si tratta del più grande centro di accoglienza per gli homeless di Manatthan e qui inizierà a comprendere cosa significa essere emarginati dalla società. Il film oltre a Richard Gere, presenta un cast importante tra cui troviamo Ben Vereen, Jena Malone, Danielle, Brooks, Steve Buscemi, Kyra Sedgwick e Geraldine Hughes.

Durante la presentazione de Gli invisibili a Roma, Richard Gere ha spiegato come sia nata l’idea di girare un film su una tematica così delicata.«Quello degli homeless è un fenomeno che negli USA riguarda quasi un milione di persone. Qui in Italia sono sui 50 mila i senzatetto che vivono tra le strade di questa città». Il noto attore di Hollywood ha poi parlato di ciò che ha provato ad interpretare il ruolo di George. «E’ stata un’esperienza profonda. Essere invisibili ti fa capire come sia diversa la vita tra chi è integrato in società e chi invece viene estraniato. Mentre mi preparavo per la parte ho letto un libro scritto da un senzatetto, Cadillac Man, che mi ha molto colpito. La sua esperienza mi ha fatto capire come realizzare il film». Richard Gere si è detto orgoglioso di mostrare il film in anteprima ai senzatetto di Roma.

 Gli invisibili, trama e recensione del film che ha commosso la critica internazionale

Mercoledì 15 giugno è arrivato in tutte le sale cinematografiche italiani Gli invisibili, il nuovo film del regista Oren Moverman con protagonista assoluto Richard Gere. L’attore di Hollywood, dopo aver vestito i panni di un miliardario in Franny, abbandona i lussi e diventa un senzatetto. La trama è ambientata tra le strade di New York dove George (Richard Gere), un uomo disperato, si trova a vivere non avendo più un posto dove andare. La vita sembra essersi dimenticata di lui e dopo aver vagato per anni nella Grande Mela, cerca rifugio al Bellevue Hospital, il più grande centro di accoglienza per senzatetto di Manhattan. Qui George entra in contatto con la crudele realtà degli emarginati, ma grazie all’amicizia con uno degli ospiti del centro ritrova la speranza di poter ricostruire il difficile rapporto con la figlia che non vede da anni.

Il regista Moverman, che sei anni fa venne candidato agli Oscar per la sceneggiatura di The Messenger, torna con una pellicola indipendente, girata direttamente tra le strade di New York con un budget basso ed in soli 21 giorni. Gli invisibili è una sorta di documentario sociologico in cui viene analizzata una tematica delicata come quella situazione dei senzatetto e di come vengano assistiti nei centri di assistenza di Manhattan. La scelta di affidare a Richard Gere, un ruolo così forte sembrava non convincere la critica internazionale. La recitazione profonda dell’attore, nonostante sia spesso fatta quasi esclusivamente di sguardi, ha però fatto cambiare idea a molti.

Ciò che invece non sembra funzionare benissimo è la sceneggiatura fin troppo piatta e monotona che lascia troppi interrogativi sul pubblico. Moverman ha scelto infatti di non rivelare particolari della vita passata del protagonista George di cui quindi sappiamo ben poco. Riuscite sono infine le inquadrature che alternano campi lunghi in cui vediamo una New York rumorosa a zoom e primi piani sui diversi attori. Tra le curiosità de Gli invisibili troviamo quella di aver ripreso quasi tutto grazie a telecamere nascoste posizionate a distanza. A questo proposito Richard Gere ha raccontato che nessuno lo ha riconosciuto nei panni del senzatetto. Riprendere le scene in questo modo ha dato al film quel tocco in più di veridicità. (Giacinta Carnevale)