La Passione di Cristo (The Passion of the Christ) è un film scritto e diretto da Mel Gibson, attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense. È uscito nelle sale degli USA il 25 febbraio 2004 (Mercoledì delle Ceneri), mentre nelle sale dell’Italia il 7 aprile 2004 (Mercoledì Santo).
Il film è aperto dalla citazione di un versetto del Libro di Isaia (53,5: dai cosiddetti «carmi del Servo sofferente»), scritto nell’VIII sec. a.C., che la tradizione cristiana riferisce a Gesù, giusto perseguitato. La vicenda si concentra sulle ultime ore della sua vita, dall’arresto nell’Orto degli Ulivi, al processo sommario presso il Sinedrio e Ponzio Pilato, alla sua atroce flagellazione, fino alla morte in croce e risurrezione.
La trama del film cerca di seguire il racconto dei Vangeli creando una sinossi-armonizzazione di essi, data la loro complementarità. Alcune delle scene sono tratte dai diari di Anna Katharina Emmerick, una mistica tedesca vissuta tra il 1774 ed il 1824, in particolare dal suo libro La dolorosa Passione del Nostro Signore Gesù Cristo e da La mistica città di Dio di Maria di Agreda.
Per ricreare maggior realismo, il film è stato interamente girato in latino e in aramaico, le lingue del tempo, e sottotitolato nelle lingue moderne. La ricostruzione dei dialoghi in aramaico, lingua che nella versione parlata allora in Giudea (il cosiddetto “aramaico maccabaico”) ci è nota solo con una certa approssimazione, è stata affidata al gesuita statunitense William Fulco, mentre per il latino è stata scelta la pronuncia ecclesiastica in luogo della restituta, verosimilmente utilizzata dai Romani di quel periodo.
II film è stato interamente lavorato in Italia, con un cast in prevalenza composto da attori italiani. Gli esterni del film sono stati girati in Basilicata nelle città di Matera e Craco, paese fantasma della provincia materana. Gli interni del film presso gli studi di Cinecittà a Roma. Le riprese del film si sono svolte tra il 4 novembre 2002 al 13 gennaio 2003.
Sono molti gli aneddoti che girano attorno alla lavorazione del film, avvenuta su un set blindato, nel freddo inverno. Il coinvolgimento emotivo e spirituale è stato forte anche da parte di chi non si potesse dire credente: si parla di conversioni come quella dell’attore Pietro Sarubbi (Barabba), che ha dichiarato di aver abbracciato il cristianesimo proprio sul set della pellicola.
L’interprete del Cristo, l’attore cattolico statunitense James Caviezel, è stato assistito per tutte le riprese da un sacerdote; nelle pause di lavorazione recitava il rosario, per trarre ispirazione. Nella maggior parte delle scene nel film dove vi è Gesù morente sulla croce, l’attore Caviezel è stato sostituito con una fedele ricostruzione robotica del valore di circa 350.000 $. Un eccellente “lavoro in ecopelle” in modalità “animatronic” (animazione elettronica) per muovere la testa e gli arti, ansimare e far uscire fiotti di sangue. Un vero gioiello tecnologico, creato dal maestro degli effetti speciali Keith Vanderlaan, aveva già esibito le sue truculente qualità in altri film come Dracula e Hannibal. Caviezel ha comunque girato le scene sulla croce, ma solo quelle dove recitava. Tra l’altro girò quelle scene in cui era pieno inverno e c’erano a malapena 5 gradi a Matera; un forte vento e gli costò ipotermia e polmonite. La ricostruzione robotica è stata usata per il momento dell’inchiodamento alla croce e per le riprese in cui Cristo non dialoga, per le scene d’effetto.
Nella scena in cui il primo chiodo viene puntato nel palmo della mano di Cristo e inchiodato, la mano dell’inchiodatore è quella di Mel Gibson. È sempre la mano di Gibson che aiuta ad alzarsi Monica Bellucci/Maria Maddalena nella scena in flashback della lapidazione. Per la flagellazione invece è stato appliccato un accurato make-up sul dorso e torace dell’attore, in modo da avere l’effetto della carne lacerata dalle fruste munite di uncini (flagelli) dei soldati più realistico possibile, anche se durante l’esecuzione del flagello gli interpreti dei soldati romani simulavano con le fruste (prive di uncinetti sulle corde) di colpire il dorso di Caviezel, successivamente durante la post produzione tramite la CGI sono stati applicati sia gli uncinetti alle corde delle fruste nel momento del colpo, che l’effetto dei tagli sulla pelle dell’attore.
Accoglienza e critica
La Passione secondo Mel Gibson
di Massimo Giraldi*
Dopo L’uomo senza volto (1993) e Braveheart (1995), Mel Gibson mette in scena un progetto che meditava da tempo: «Dodici anni fa ho avuto una profonda crisi. In quel periodo di confusione e di dolore ho capito che avevo bisogno di un grande aiuto. Ho trovato conforto rileggendo i Vangeli, in particolare la Passione. E’ allora che mi è venuta voglia di farne un film». La pellicola inizia evocando un passo emblematico di Isaia: «Molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto… Eppure si é caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… Era come un agnello condotto al macello» (cfr. Is 54). Citazione che in qualche modo indica la specifica prospettiva del regista, che così si inserisce di fatto nella lunga frequentazione che la settima arte intrattiene con la vicenda di Gesù.
Il desiderio di rappresentare il sacro, di dare forma al mistero di Dio rivelato in Gesù non solo è un’aspirazione legittima, ma risponde anche ad un’esigenza della fede cattolica che riconosce nell’incarnazione del Figlio di Dio la rivelazione piena e definitiva del Padre. Da qui scaturirono, nelle varie espressioni artistiche (dalla pittura alla scultura, e assai più tardi nel cinema), modi differenti per rappresentare la vita di Gesù che corrispondono ad altrettante personali interpretazioni di tale vicenda. La molteplicità delle stesse rappresentazioni cinematografiche compongono ormai una sorta di antologia visiva che, mentre contribuisce ad accedere a parte almeno del mistero di Gesù, nel contempo attesta la relatività e la precarietà di qualsiasi interpretazione rispetto alla verità di Gesù. Alla Chiesa stessa non è bastato un Vangelo – ne ha infatti ben quattro – e questo, certo, non per debolezza o imprecisione narrativa quanto piuttosto per una necessaria polifonia nel consegnarci la pienezza della verità sulla figura di Gesù.
E’ necessario dunque, per accostarsi a The Passion, assumere la consapevolezza che il cinema non si incarica primariamente di uno sguardo documentaristico sulla realtà. Anche quando si ispira ad una vicenda storica, il cinema col suo gioco di sguardi e di finzione mette in campo una peculiare forza trasfiguratrice di quella vicenda, a partire dall’immaginazione e, non indifferente, dal modo personale di rileggere quanto sarà rappresentato e dunque dal contesto culturale nel quale l’autore vive (basti pensare ai differenti contesti per film come l’americano Jesus Christ Superstar – 1973 – di Norman Jewison e l’italiano Vangelo secondo Matteo – 1964 – di Pier Paolo Pasolini). In questo caso Mel Gibson, basandosi sui quattro Vangeli, su qualche fonte apocrifa e sugli scritti della mistica tedesca Anna Caterina Emmerick, mette in scena il dramma delle ultime 12 ore della vita di Gesù (ruolo interpretato dal trentatreenne Jim Caviezel), nelle quali la tensione drammatica di quella intera vita trova il proprio compimento. La prospettiva dunque di Gibson non si colloca nell’alveo della classica iconografia di stampo romantico (di cui Gesù di Nazareth – 1977 – di Franco Zeffirelli é codificazione esemplare) e opta decisamente per un’interpretazione del volto sfigurato di Gesù evocante le rappresentazioni iconografiche del cinquecento e del seicento.
In questo scenario si spiega il ricorso a due lingue, come l’aramaico e il latino, che pur non potendo avere alcuna valenza documentaristica, conferiscono tuttavia al film una ineludibile intensità. Stratagemma, quello delle lingue, che, unitamente al recupero di alcune varianti della devozione tradizionale, assegna all’opera di Mel Gibson una tensione drammaturgica di grande rilievo. La narrazione procede secondo le scansioni classiche della via crucis, dall’incontro con la Veronica alle cadute di Gesù sotto il peso della croce. Dosando inoltre con una certa sapienza l’uso del flash back sull’infanzia di Gesù e più spesso ancora centrando con efficacia sull’ultima cena, il film suggerisce una lettura unitaria della vicenda storica di Gesù, in particolare un’unicità di sguardo sullo stesso mistero di salvezza. Infatti, si inscena con raffinata delicatezza il rapporto di Gesù con Maria – straordinaria l’interpretazione di Maia Morgenstern – rapporto che trova il suo culmine nell’abbraccio di pietà della deposizione. Efficace é anche il profilo con cui si evocano i vari personaggi; seppur va segnalato che l’inevitabile processo di schematizzazione dei ruoli non deve condurre a fraintendimenti: ad esempio, la responsabilità della condanna inflitta a Gesù non è di un popolo, ma dell’intera umanità peccatrice, cui peraltro non mancano di rinviare i vari soggetti coinvolti. Accanto alle particolari “soggettive” su Gesù, si ricorda l’inquadratura dall’alto situata qualche istante prima della morte sul Calvario, che ad un tratto si trasforma in goccia d’acqua: cadendo vertiginosamente sulla terra accanto alla croce di Gesù, segna l’inizio del terremoto e la rovina del tempio. Una inquadratura che può evocare il pianto di Dio sul figlio Gesù che sta morendo. Allo stesso regista capiterà di affermare: «Il vero messaggio del mio film é il perdono. La lacrima di Dio che piove dal cielo nel momento in cui Gesù muore significa questo».
Uno degli aspetti che richiede una qualche precisazione è costituito dalla rappresentazione che si fa della violenza su Gesù. «Quello che mi ha sempre colpito della Passione – ammette Mel Gibson – è stata la capacità di Gesù Cristo, diventato uomo, di sottoporsi a una sofferenza indicibile per amore dell’umanità. Non potevo non mostrarla in tutta la sua forza e fin nei particolari. Forse sono le immagini più scioccanti che abbia mai visto in un film, ma dovevo farle vedere». Dinanzi però a sì tanta violenza, enfatizzata non solo da immagini continuamente reiterate, ma anche dall’utilizzo del rallenty, è il caso di rammentare che la morte di Gesù in croce ci salva non per la quantità del dolore subito – per quanto incalcolabile –, ma per il fatto che Gesù ha vissuto l’infamante patibolo e l’immenso supplizio in assoluta fedeltà al Padre e in piena apertura d’amore all’umanità. La prospettiva della risurrezione, che nei Vangeli é la chiave di tutto, non può circoscriversi all’inquadratura conclusiva, in quanto costituisce il codice interpretativo interno dell’intera passione.
*Massimo Giraldi, giornalista e critico cinematografico, segretario della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana (Fonte: http://www.saledellacomunita.it /pls/acec/v3_s2ew_consultazione. mostra_paginawap?id_pagina=458)
The Passion
di Rino Cammilleri*
Ho avuto il privilegio di poter assistere a una visione riservata del già famosissimo film di Mel Gibson The Passion of the Christ, lavoro cinematografico che detiene un singolare record: è senz’altro il film più discusso della storia, ma in anticipo, cioè ancor prima della proiezione nelle sale. L’attesa è stata enorme e negli Stati Uniti, dove è uscito il 25 febbraio, è stato distribuito in 4500 sale; per un paragone, si pensi che The Return of the King, l’ultimo della “trilogia dell’Anello”, di sale ne ha avute 300 in meno.
Certo, molto merito di questo lancio senza precedenti lo si deve, è inutile nasconderselo, alle polemiche innescate da quelle associazioni ebraiche che hanno accusato il film di antisemitismo. A questo proposito leggevo su «Il Giornale» del 15 febbraio u.s. gli stralci di una lettera aperta che il rabbino Daniel Lapin aveva pubblicato on line riguardo al film. In essa si scuoteva la testa per «quelle organizzazioni ebraiche che hanno sprecato tempo e soldi inutilmente nella protesta»; infatti, «hanno sperato di bloccare il film, invece lo stanno promuovendo». Di più: «Nel pubblico di tutta l’America sto incontrando un sentimento di amarezza verso le organizzazioni ebraiche che insistono nel dire che credere nel Nuovo Testamento significa dar prova di antisemitismo.
Già, perché il regista si è limitato a praticamente copiare, usando il racconto evangelico come, appunto, un copione già pronto. In effetti, senza le polemiche che lo hanno proceduto di almeno un anno, quel film sarebbe uscito praticamente in sordina e non si sarebbe creata quell’attesa che, invece, c’è stata e c’è. Tutti non vedono l’ora di vederlo, e tutti, c’è da giurarci, lo vedranno.
Questo effetto-boomerang è l’ultimo dei miracoli di questo straordinario (a quanto pare) film. Il protagonista Jim Caviezel ha, infatti, raccontato a «Newsweek» che, mentre stavano girando le ultime scene del Sermone della Montagna, un italiano si è rivolto a Mel Gibson in perfetto inglese (mai era stato sentito prima e non si pensava ne fosse capace) ed ha fermamente consigliato di andar via. Il tono autorevole e i nuvoloni all’orizzonte hanno convinto lo stupito regista. Proprio nell’esatto momento in cui la troupe ha iniziato la discesa si è scatenato il finimondo con fulmini e saette: una folgore ha colpito la croce e un’altra l’ombrello del protagonista, che ha avuto i capelli e le dita della mano bruciacchiati. Caviezel è un cattolico da messa quotidiana, così come Gibson. L’attrice che fa la Madonna è un’ebrea di cognome Morgenstern, che in tedesco significa «stella del mattino” e che, coincidenza, è uno dei tradizionali appellativi della Vergine. Insomma, ce n’era di che stuzzicare la curiosità. Ed è con somma curiosità che, infatti, mi sono precipitato a vederlo, quel film, in una saletta improvvisata e in compagnia di una decina di giornalisti selezionati.
Il film è davvero bello, a tratti anche commovente. E’ stato detto che è violento, ma è solo realistico: un uomo flagellato col tremendo flagrum romano (una frusta di catenelle metalliche terminante con punte acuminate) non può che uscirne con la carne a brandelli e letteralmente coperto di sangue; e così è nel film. Corre voce che l’autore si sia ispirato anche alle visioni di Anna Katharina Emmerick, la suora stigmatizzata che nei primi decenni dell’Ottocento affidò le sue esperienze mistiche al poeta tedesco Clemens von Brentano. Potrebbe essere, dal momento che nel film Cristo porta la croce intera, laddove i due ladroni reggono sulle spalle (più correttamente da un punto di vista storico-archeologico) solo la barra orizzontale, lo stipes. Il Cristo in croce, poi, mi ha fatto ricordare un dipinto di s. Alfonso de’ Liguori (il Santo e Dottore della Chiesa era anche pittore, oltre che musicista, teologo moralista e fondatore): in esso il Crocifisso è come inondato di sangue, così come appare nel film e come davvero deve essere stato.
Naturalmente, la domanda da 100 milioni di dollari, quella che più urge è questa: il film è realmente antisemita? Posso rispondere solo così: dal momento che c’era questa particolare polemica in atto, ho scrutato attentamente gli eventuali segni di antisemitismo (cosa a cui non avrei nemmeno pensato senza la pulce nell’orecchio) e devo dire che, semmai, ne ho trovati parecchi di antiromanismo. Sì, a farci la figura peggiore sono proprio i romani, la cui brutalità gratuita e ottusa occupa i tre quarti della proiezione. Esistesse una Antidefamation league dei romani, Mel Gibson avrebbe davvero passato i guai.
No, il film è una trasposizione pedissequa del Vangelo, il quale non può essere certo accusato di antisemitismo, visto che tra i “buoni” della Passione mette parecchi personaggi che erano, per forza, ebrei e addirittura un paio di sinedriti come Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo.
Devo dire che il film andrebbe visto almeno due volte.
Sì, perché nella prima visione si è per forza di cose distratti dai sottotitoli e non si gustano i dialoghi in aramaico e in latino. Io, che ho dovuto leggere sottotitolazione in inglese, ne sono stato spiazzato due volte, almeno finché non mi sono costretto a seguire solo l’audio. Fa davvero impressione ascoltare l’audio di quel che fu realmente detto allora, e con lo stesso tono. I continui flashback che fanno coincidere i momenti più acuti della Passione con passi del discorso delle beatitudini, della lavanda dei piedi, dell’ultima cena vanno ascritti all’arte di Mel Gibson, che si conferma autore di grande cinema. Anche il rimando tra una delle cadute di Cristo sotto la croce e un suo ruzzolone, da piccolo, subito consolato dalla Madre (che ora si strugge impotente perché non può più farlo), è un tocco di tragica poesia che lascerà il segno.
Infine, l’androginia del diavolo e l’inserimento del serpente nel Getsemani sono passi sia da cineforum che da meditazione. Speriamo che, appunto, i cineforum cattolici colgano la palla al balzo e imparino, finalmente, che si può fare cinema “cattolico” senza annoiare.
*Rino Cammilleri, scrittore e pubblicista, coordinatore di una rete di centri culturali cattolici, collaboratore de «Il Timone», una rivista mensile di apologetica cattolica che si propone come strumento da utilizzare per la nuova evangelizzazione (Fonte: http://www.auditorium casatenovo.com/film5anno/passion8.htm)
Fascinoso, inafferrabile Gesù
di Dario E. Viganò*
Lungo i secoli è stato sempre vivo nella Chiesa il problema di dare espressione al volto di Cristo, alle vicende della sua vita, in particolare alla sua passione. Ne sono scaturite anche contese teologiche, e se n’è dovuto occupare persino un Concilio (di Nicea) che nell’anno 787 affermava: «Se qualcuno non ammette che i racconti evangelici siano tradotti in immagini, sia anatema». Si veniva così incontro alla devozione del popolo, soprattutto si affermava la realtà dell’incarnazione del Figlio di Dio, rifiutando ogni riduzione della fede a semplice dottrina, a mito fuori dal tempo.
L’arte pittorica e quella della scultura vennero in soccorso a questa esigenza della fede, la quale anche per questa via ribadiva il proprio fondamento storico. In Occidente avvenne in modo diverso che in Oriente, dove l’icona assunse un valore liturgico, diventando non semplicemente un’immagine per la fede ma quasi una sua incarnazione.
Irrealistico tuttavia pensare che ci sia un modo assoluto, unico di raffigurare Gesù e i fatti della sua vita. Ogni pittore, anche nella tradizione del “Volto Santo”, dice qualcosa del mistero della persona del Figlio di Dio, ma non lo esaurisce. In Occidente, poi, la ricchezza di questo mistero e il suo intrecciarsi con gli interrogativi dell’uomo, hanno prodotto una pluralità di immagini dove nessuna può dirsi definitiva; al massimo possono aver l’ambizione di contribuire ad avvicinare la profondità del mistero.
Questa regola vale anche per l’arte più recente della cinematografia, la quale ha già offerto numerosi volti di Cristo, non sempre (purtroppo) rispondenti all’altezza del soggetto, come d’altronde era accaduto e accade per le altre arti. Nella loro varietà possono essere accolti come inviti a porre attenzione su Gesù, a far interrogare sulla sua persona e sulla sua vita, a spingere verso un’ulteriore ricerca. Sapendo in partenza, o arrivando a capire poi, che l’avvenimento-Gesù supera ogni possibile descrizione.
È la testimonianza deducibile dagli stessi Vangeli. Non è per incapacità a narrare i fatti, e tanto meno per scarsa fedeltà ad essi, che uno solo dei quattro Vangeli bastava alla Chiesa per dire la pienezza di Cristo: solamente dalla loro sinfonica composizione, e dalla loro collocazione nell’arco dell’intera storia della salvezza, viene a noi la certezza della verità sulla persona di Gesù Cristo e sulla sua storia. Accolti nella fede della Chiesa che ce li offre, i Vangeli sono l’unico accesso al mistero di Cristo nella sua radicale storicità e nella sua altrettanto radicale trascendenza. Tutto il resto – in letteratura, arte, scienza… – aiuta, scuote, setaccia, avvantaggia la nostra ricerca, ma non sostituisce il racconto dei Vangeli, né lo integra su quello stesso piano, con quello stesso valore.
Chi vive in regioni di antica cristianità può trovarsi in una paradossale condizione di curiosità spenta su Gesù, come se già conoscesse tutto e dunque possa permettersi un giudizio di sufficienza o di indifferenza. Per questi l’esperienza dell’incontro con un testimone o con un’opera d’arte può avere effetti benefici del tutto impensabili. Può segnare un itinerario di ripensamento e riscoperta. Tuttavia, non è una ricostruzione più minuziosa o ambiziosamente più attendibile (più attendibile dei Vangeli?) a dare più certezza alla fede. Vivendo noi in una cultura massmediale abbiamo mediamente una sensibilità più spiccata che in altre epoche verso il linguaggio delle immagini. La loro eloquenza talora “parla” al nostro cuore, meglio: al cuore dell’uno o dell’altro, mai a tutti insieme. E tuttavia non ci sono “lacune” nei Vangeli da rimediare mediante il ricorso a ritratti devozionali, narrazioni d’arte, o a visioni che appartengono all’esperienza spirituale di singole persone. Tutto può essere di aiuto, ma tutto va misurato passo passo sul Vangelo, senza unilateralità ingenue o ideologiche che siano.
La dimensione salvifica di Cristo, e in particolare della sua morte, non si fonda sulla quantificazione del dolore subito. Non vorremmo dover sostituire Gesù solo perché a qualcuno, nel corso della storia, è stata inflitta una sofferenza fisicamente più intensa e abbrutente. Gesù ci salva perché soffrendo, ha vissuto quel dolore certamente immenso e la morte, infamante e maledetta, in assoluta fedeltà a Dio, suo Padre, e in piena apertura d’amore all’umanità. L’amore assoluto del Figlio di Dio.
* Dario Edoardo Viganò, presbitero, autore di libri e di articoli dedicati al rapporto tra il cinema ed il mondo cattolico, professore ordinario presso la Pontificia Università Lateranense e docente incaricato presso la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali LUISS «Guido Carli» di Roma, dal 2004 presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo e direttore della «Rivista del Cinematografo», dal 2013 direttore del Centro Televisivo Vaticano e segretario del Consiglio di Amministrazione del medesimo Centro (Fonte: http://www.saledellacomunita.it/ pls/acec/v3_s2ew_ consultazione. mostra_paginawap?id_pagina=457)
A cura di Piotr Anzulewicz OFMConv