Ora «si è manifestata la giustizia di Dio»

tomba-vuota-17374681Amici, per tutti «si è manifestata la giustizia di Dio» (Rm 3,21), cioè la sua bontà, il suo amore, la sua misericordia. Ne siamo sicuri davanti alla tomba vuota di Cristo risorto. Nulla può «sconfiggerla», «oscurarla» o «indebolirla». Buona vita da giustificati, riconciliati, risorti!

Consiglio direttivo




In bilico tra paura e speranza

timbuktu_poster_qVenerdì 18 marzo si è tenuta la 5ª Serata cinematografica,  presso il Salone «S. Elisabetta di Ungheria», al lato destro della chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido.  In programmazione un film ad alta intensità e attualità: «Timbuktu» (Le chagrin des oiseaux), con il tema strappacuore: fondamentalismo religioso e jihadismo islamista. Un gioiello, capace di geniali rovesciamenti prospettici, da vedere assolutamente. Lo avremmo guardato con fiato sospeso, in bilico tra speranza e disperazione, se non ci fosse stato un fatto imprevedibile: la pennetta Usb, fornita dalla Cineteca, su cui era stato riversato il film, non ha funzionato. In sostituzione, per rimanere in tema, all’istante si è deciso di proiettare la pellicola di Roberto Benigni: «La vita è bella». Il film di Abderrahmane Sissako, uno dei pochi artisti africani conosciuti ed apprezzati anche in Occidente, sarà ripresentato in data da stabilirsi. La sua trama, comunque, è stata raccontata dalla dott.ssa Teresa Cona, curatrice principale della 2ª edizione del CineCircolo «sui sentieri della misericordia».

Timbuktu 3Era il 2012 quando le milizie jihadiste integraliste provenienti da altri luoghi, a partire dalla Libia, invasero Timbuktu, città del nord del Mali, considerata patrimonio dell’umanità e una delle sette meraviglie del mondo con i suoi inestimabili tesori – compresi i manoscritti di Avicenna († 1037), medico, filosofo, matematico e fisico persiano, una delle figure più note nel mondo islamico – per farne il loro quartier generale. La loro distorta ed integralista visione della vita e della religione portò non solo devastazioni e terrore, ma anche “distruzioni” atte a colpire il patrimonio delle conoscenze, principale nemico dell’ortodossia, e cominciare proprio da lì, da questo luogo simbolo, a tracciare le linee guida di un percorso, in una «escalation» strisciante, che adesso avvertiamo insidiosa anche sulla nostra pelle con molta preoccupazione, ma con poco coraggio oppositivo. Uno sgretolamento della civiltà che non sappiamo ancora a quale deriva ci condurrà, ma certamente più tragica di ciò che è già accaduto dopo i fatti dell’11 settembre del 2001. Questa volta in nessuna parte del mondo niente potrà essere come prima, e non lo è più nemmeno adesso, come testimoniano i luttuosi fatti di ogni giorno.

Abderrahmane Sissako Sissako, con rara ed efficace precisione, riesce dunque a fissare il suo sguardo su una zona “simbolo” che suo malgrado è stata fra le prime a dover fare i conti con la furia dei jihadisti, quando ormai al-Qaeda sembrava essere (quasi) sconfitta e si sottovalutavano i “piccoli” conflitti, a torto ritenuti locali, compresa la tragedia della Siria che non ci interessava proprio, e a darci una lettura fatta dall’interno. Infatti, il suo non è un film anti-islamico, ed è bene chiarirlo subito (e il discorso che l’imam della moschea locale fa al neofita jihadista, ne costituisce la prova più evidente, soprattutto nel passaggio in cui afferma che anche lui ha la «jihad» nel cuore, intesa però come ricerca interiore, non come strumento di dolore e sofferenza altrui), ma è proprio per questo ancora più importante soprattutto per noi che abbiamo solo una conoscenza “di riporto” delle cose, e non sempre del tutto attendibile.

MaliVisivamente bellissimo ed appassionato Timbuktu è un grido che colpisce al cuore: il drammatico ritratto del paese dell’infanzia del regista – il Mali, appunto, Paese che non fa notizia e non produce mobilitazioni internazionali – le cui ricche tradizioni umane sono state così pesantemente calpestate da un fanatismo che arriva da lontano. «Sono nato in Mauritania, ma mi sono ben presto trasferito in Mali con la mia famiglia – è lo stesso Sissako a dirlo – e mi preoccupa moltissimo ciò che sta accadendo in quella terra e che si sta allargando a macchia d’olio, perché sono un cittadino del mondo: che sia cresciuto lì è per me un fatto davvero secondario. Trovo, infatti, spaventoso e inaccettabile, a prescindere da quella circostanza personale, che un gruppo di persone, sempre più organizzato e vasto, in costante espansione, si sia posto l’obiettivo di trasformare con tanta efferatezza la società islamica, che per secoli è stata tollerante e gentile, in qualcosa di così intollerante e brutale».

Sissako, con il suo stile lento e piano, fatto di silenzi e di sguardi più che di parole, ci racconta quindi – e universalizza – ciò che è accaduto e sta accadendo in un angolo insanguinato dell’Africa, e ci invita a tenere bene a mente che il male può annidarsi ovunque, anche nei luoghi più tranquilli e “pacifici” della terra: si palesa o arriva all’improvviso, cambiando inesorabilmente il corso delle cose… «Nessuno è al sicuro, insomma, ed è molto meglio prevenire anziché provare a chiudere la stalla quando ormai i buoi sono scappati» (Spopola).

Boko HaramjihadistiUn breve dibattito con i partecipanti ha surriscaldato l’atmosfera. La data della proiezione del Timbuktu, il 18 marzo, è quanto mai significativa. Proprio due giorni fa – ha ricordato il Presidente del Circolo – è stata compiuta un’ennesima orribile strage, all’interno di una moschea alle porte di Maiduguri, capitale dello Stato del Borno: almeno 25 le vittime. La matrice sarebbe quella dei jihadisti di Boko Haram (il nome deriva dalla parola «hausa boko» che letteralmente significa «l’istruzione occidentale è sacrilega» o «vietata»), un’organizzazione terroristica jihadista sunnita, diffusa nel nord della Nigeria e nota anche come «Gruppo della Gente della Sunna» per la propaganda religiosa e il «jihad» (il termine arabo che nella dottrina islamica indica tanto lo sforzo di miglioramento del credente, quanto la guerra condotta «per la causa di Dio» contro gli infedeli, per l’espansione dell’islam). Quel gruppo integralista vuole eliminare i cristiani dal nordest a maggioranza islamica e imporre una pratica religiosa più rigorosa, secondo la legge coranica. È per questo attacca anche le moschee e i fedeli islamici. Il governo nigeriano combatte questo estremismo, ma sembra lontano dal riuscire Mali - famigliaa sconfiggerlo, perché il gruppo è molto radicato nel territorio. La Nigeria è uno dei Paesi più ricchi del mondo, nel senso che è il primo produttore africano di petrolio, ma a causa della corruzione è anche uno dei Paesi più poveri del mondo, con tuttora più del 60% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. È la povertà che favorisce il reclutamento di terroristi, magari non convinti dal punto di vista religioso, trattandosi di Boko Haram, ma convinti dal fatto di ricevere una paga, un salario, un compenso. E poi c’è il fatto che sparisce anche quel denaro che viene stanziato per acquistare armi e formare l’esercito per combattere i jihadisti appartenenti alla galassia del terrorismo internazionale. Di conseguenza i contingenti militari scappano, invece di difendere le comunità e attaccare o perlomeno di arginare Boko Haram, sostenendo, per l’appunto, di non essere in grado di farlo, in quanto meno equipaggiati. Così non passa settimana senza un attentato di proporzioni minori per gravità e vittime. Boko Haram impiega donne e addirittura bambine, approfittando del fatto che con il velo integrale è più facile passare inosservati e soprattutto nascondere esplosivo.

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Tornando al film Timbuktu, il regista ha scelto di non essere il narratore di un tragico fatto di cronaca, ma si è posto un obiettivo molto più ambizioso, quello di darci un quadro più ampio e documentato della situazione, organizzando un racconto che invita alla riflessione. Grazie alla struttura del suo film che precede per contrapposizioni, ci fa vedere l’abissale distanza tra due mondi, fisicamente vicini, ma al tempo stesso anni luce lontani l’uno dall’altro: da una parte un fiabesco paesaggio immerso fra le maestose dune del deserto, che incornicia la vita di una famiglia, quella di Kidane con la moglie Satina e la figlioletta, che conosce l’armonia e la fedeltà nelle relazioni parentali e con la divinità, e dall’altro il villaggio sottoposto alla dura legge della sharīʿa imposta da uomini che in una babele di lingue (tuareg, arabo e francese) atte ad indicarne le differenti provenienze, e senza altra radice comune che non sia quella dell’integralismo, impongono norme vessatorie, con frustate, incarcerazione o addirittura con qualcosa di più terribile, proibendo di cantare, danzare, fumare, giocare al calcio o affacciarsi alla finestra, infierendo soprattutto sulle donne costrette ad indossare velo, guanti e calzettoni.

Timbuktu-cover-cd_origIl tutto viene trasfigurato da Sissako in quel preoccupante grido di allarme, lanciato a un Occidente spesso distratto e incline a pensare che in fondo l’integralismo sia una rivolta contro i secoli di colonialismo subiti, e che nasca di conseguenza dall’interno delle varie realtà nazionali. Il regista riesce a smontare questa concezione ponendoci di fronte a una verità ancora più brutale: si tratta di un’oppressione che ha alle spalle un ben più pericoloso e ambizioso progetto studiato a tavolino, frutto di una follia ideologica assetata di sangue infedele che prende a pretesto una supposta fede per sottomettere intere popolazioni e provare – come è già accaduto in passato – a colonizzare il mondo intero, una forma cancerogena che si sviluppa e dilaga come una metastasi ormai difficile da contenere e contrastare per il ritardo con cui ne abbiamo preso coscienza. Se non ci sarà un cambiamento di rotta, forse «non resta molto altro da fare, se non quello di provare a fuggire a gambe levate correndo a più non posso, come fa la gazzella del film, sperando di non stramazzare esausti senza essere riusciti a trovare un rifugio sicuro per riprendere almeno un po’ di fiato, perché è proprio quello che vogliono»: “sfiancarci”.

IMG_1818Nel corso della Serata, a sorpresa, il Circolo ha voluto, in concomitanza della festa di s. Giuseppe, festeggiare l’avv. Giuseppe Frontera, consigliere e curatore principale della 2ª edizione delle Serate conviviali focalizzate su «Catanzaro ed oltre: mille volti» e tese a rilanciare «quegli “input” che sono necessari alla rinascita della cultura di accoglienza e solidarietà, nel segno dell’Anno IMG_4020della Misericordia». A nome della nostra associazione, la Segretaria gli ha fatto dono del volume di Franco Riga Catanzaro Marina – storia di un borgo antico (Editore Istante, 2014), che racconta con 480 illustrazioni fotografiche un territorio poco rappresentato e di grande potenzialità, e di una pergamena sulla quale i presenti hanno apposto la propria firma. Si è stappato lo spumante e si è brindato tra la gioia dei partecipanti e la commozione del Festeggiato. Non sono mancati dolci e torte salate portate dalla sig.ra Daniela.

Si è quindi ripreso la proiezione del film La vita è bella, ma solo per breve tempo. È stata interrotta, anch’essa a sorpresa, per l’arrivo del gruppo parrocchiale appartenente al «Rinnovamento nello Spirito Santo», con un veloce saluto, quanto gradito, a tutto il Circolo. Sono momenti come questi che ripagano tanti sacrifici che soggiacciono ad ogni evento culturale proposto dal Circolo. Il riconoscimento del lavoro, svolto con passione ed entusiasmo, pur tra mille difficoltà, ostacoli e imprevisti, affinché vengano dibattute e affrontate le problematiche più scottanti, rinfranca gli animi e permette di proseguire nell’arduo cammino che attende chiunque pretenda di «far cultura» nella propria comunità parrocchiale e civile, in modo volontaristico e del tutto gratuito, con l’unica gratificazione di saper di avere contribuito a portare la cultura dello stare insieme e del progettare insieme il presente e il futuro.

L’appuntamento è a venerdì 1 aprile, alle ore 18.45, dopo la pausa per le festività pasquali. Una splendida opportunità di riflettere sulle tradizioni pasquali catanzaresi degne da custodire, coltivare, reinterpretare e far scoprire alle giovani generazioni.

(pa-tc)

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Una città accogliente?

4ª Serata (II)Venerdì 11 marzo, presso il Salone «S. Elisabetta di Ungheria», situato al lato destro della chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido, si è svolta la 4ª Serata conviviale con aperitivo dal titolo: «Catanzaro: città dalle cinque porte – ‘passione’ dell’accoglienza?», aperta a tutti, promossa dal Circolo Culturale San Francesco e patrocinata dal Parroco, nell’ambito della 2ª edizione del WikiCircolo focalizzata su «Catanzaro ed oltre», nel solco dell’Anno straordinario della Misericordia. Relatore della Serata è stato l’avv. Peppino Frontera che ne è anche il curatore, insieme con lo Staff.

porta-di-lampedusaporta_santain san pietro (particolare)Malgrado il clima atmosferico avverso, si è registrata una buona affluenza all’evento, complice l’argomento trattato: notizie inedite sulla città di Catanzaro che ne attirano gli estimatori. La dott.ssa Teresa Cona, segretaria del Circolo, ha introdotta la Serata con brevi cenni sul significato della «porta». «Nelle diverse culture – ha detto – la porta rappresenta la separazione o la comunicazione tra i due ambiti»: l’esterno e l’interno, il noto e l’ignoto, il profano e il sacro. È soglia, confine, limite, luogo di passaggio, di separazione, di esclusione o di accoglienza. È anche un invito a passare dal mondo presente a quello futuro, divino, eterno. Tutta la storia della salvezza è collocata tra due porte: la porta del Paradiso, da cui Adamo ed Eva ne furono scacciati, dopo il peccato originale, e la porta della Gerusalemme celeste, attraverso la quale si entrerà nella pienezza di vita. Comunque, tutte le porte, di cui parla la Bibbia, svaniscono davanti alla Porta per eccellenza: Gesù Cristo (cfr. Gv 10,9). Egli, tra le tante porte da tenere aperte, è la porta più promettente, perché conduce all’abbraccio dell’amore misericordioso del Padre. Molti sono dunque i significati attribuiti alla porta: culturali, biblico-teologici, liturgici, architettonici.

IMG_0021 (2)Di porte architettoniche catanzaresi ha parlato poi, con viva partecipazione, l’avv. Frontera. Catanzaro fu costruita come una città-fortezza, con torri, bastioni e porte civiche, racchiusa in una cinta muraria di 7 km. Era in grado di resistere anche a lunghi assedi. Le porte di accesso erano cinque o addirittura sei. La porta principale, detta ‘granara’ o ‘marinara’, garantiva l’accesso dalla costa ed era utilizzata per il commercio del frumento. La porta di S. Giovanni, chiamata ‘castellana’ o episcopale e posizionata nell’attuale Piazza Matteotti, aveva tre entrate provviste di catene, poiché c’era il dazio. La porta di S. Agostino, detta ‘pratica’, consentiva l’accesso da Occidente al rione Paradiso (oggi quartiere Case Arse). La porta ‘strato’ (dal greco: «occulto») o ‘tubulo’, situata nell’omonimo quartiere, era invece una porta civica. Per la porta del ‘gallinaio’ e la porta ‘silana’ passava il bestiame. Le porte che sono sopravvissute parzialmente ai secoli e all’incuria sono quella di ‘strato’ e quella di S. Agostino.

Il Relatore ha messo in evidenza come la città da sempre è stata ospitale. Ad esempio, ha dato la possibilità a Israeliti di integrarsi in modo da poter aver riconosciuti privilegi e diritti come anche doveri, equiparandoli ai cittadini catanzaresi. Lo stesso trattamento ha riservato agli amalfitani ed ai siciliani. Oggi la memoria deve essere capace di fare i conti con l’oblio.

RifugiatiSerata davvero interessante, quella di venerdì! Al termine si è aperto uno scambio di opinioni tra il Relatore e i presenti. Molte sono state le domande e le integrazioni. Le nostre città sono spazi complessi e spesso contradditori: includono e nello stesso tempo escludono. Alcune voci ponevano dunque il problema di come sviluppare la cultura dell’accoglienza e dell’ospitalità, problema che ha profili culturali, organizzativi e professionali. La proposta che è stata rilanciata è quella di rendere evidenti i contenuti del principio di prossimità e di incontro, e di trasferirli all’interno di un atto formale che ogni città dovrebbe adattare al proprio profilo. Essa potrebbe chiamarsi «Carta dell’Accoglienza». La città è sempre accogliente con gli extracomunitari, perché non si lascia possedere da una sola comunità.

Porta di LampedusaUna città accogliente, a misura di ciascuno, è ancora un sogno. Bisogna andare più in là, senza rimanere sulla soglia, e costruirla in modo che tenga conto dei più deboli, che non respinga i disabili, che accolga coloro che sono nell’angolo grigio della periferia, che non escluda chi non può vedere o chi non può ascoltare, che curi la “cultura dell’integrazione”… Sono ormai diverse le pubblicazioni che recano il titolo «città accogliente». A noi piace citare il volume di C. M. Martini ed altri, Dalla città accogliente alla città aperta (Troina 2005).

L’«aperitivo» – con la pizza offerta dai coniugi Lista, la torta portata dalla sig.ra Rosa e gli stuzzichini preparati dalla sig.ra Daniela  – ha concluso la Serata in festosa armonia.

L’appuntamento è al prossimo venerdì alle 18.45, con il CineCircolo «sui sentieri della misericordia». Il film in scaletta è «Timbuktu» del regista mauritano Abderrahmane Sissako, a cui seguirà il dibattito sull’integralismo religioso e il dramma del jihadismo. (tc-pa)

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Gli sbarchi non sono finiti

La nave dolce - portoMolti, troppi, si sono lasciati sfuggire la proiezione del docufilm «La nave dolce» di Daniele Vicari, regista di «Diaz» sui fatti del G8 di Genova, il 3° film della 2ª edizione del CineCircolo promossa dal Circolo Culturale San Francesco e curata dalla dott.ssa Teresa Cona con lo Staff, nel suo andare incontro a ciascuno, l’altro e l’altra, «sui sentieri della misericordia». La presenza nel Salone «S. Elisabetta d’Ungheria» presso la chiesa «Sacro Cuore» di Catanzaro Lido sarebbe potuta essere numerosa e sarebbe davvero valsa la candela proiettarlo. «La nave dolce» non solo rendeva visibile e concreto ciò che altrimenti sarebbe stato soltanto immaginabile: coinvolgeva sia la sfera cognitiva che quella emotiva degli spettatori e lanciava a loro dei messaggi molto impressionanti, dotati di grande valore educativo. Sì, lo si doveva proiettare.

KatynIl film racconta molto di noi e del nostro Bel Paese. È uno di quelle opere che sono “agenti di storia”, cioè costruttori o addirittura protagonisti di avvenimenti significativi, per l’incidenza sull’evoluzione della società. Si consideri, al riguardo, una pellicola come Katyń (2007) di Andrzej Wajda, dedicata alla terribile strage di 22 mila prigionieri polacchi, prevalentemente ufficiali e sottufficiali, uccisi dai comunisti sovietici nel 1940 a sangue freddo, con un colpo alla nuca. In Polonia il film – anche se esteticamente non eccelso – è diventato un “caso” nazionale ed è stato visto da circa 3 milioni di spettatori. Katyń è basato su Post mortem, il libro di Andrzej Mularczyk, e sul diario del maggiore Adam Solski, trovato durante l’esumazione del cadavere nel 1943. Lo stesso regista è figlio di uno degli ufficiali polacchi uccisi a Katyń, Jakub Wajda. La pellicola evidenzia il tentativo di occultamento effettuato dai comunisti sovietici per nascondere la loro responsabilità dell’eccidio. Marc Ferro, storico francese ed esperto della Russia e della storia del cinema, osserva che in passato erano le opere letterarie a incidere sull’opinione pubblica. Si pensi, per esempio, alla battaglia culturale che suscitò oltralpe il dramma Hernani di Victor Hugo nel 1830. Oggi, invece, sono i film, gli spettacoli televisivi e soprattutto Internet gli strumenti di informazione privilegiati, in grado di esercitare, talvolta, un’azione sulle vicende storiche, nel bene o nel male. Così anche il docu-film di Daniele Vicari, il film ‘dal vivo’, incentrato sulla ‘vita colta sul fatto’, riflettendo la società, contribuisce a modificarla in meglio. Ci ricorda che anche nei momenti più oscuri e inattesi si può trovare una voce dentro di noi che ci fa rimanere umani.

La_nave_dolce_Daniele_Vicari_Foto_Luca_Turi_TuriLa proiezione è stata seguita da un breve dibattito sul dramma degli immigrati alla conquista di un “Eden” italiano. Dell’incredibile storia della nave mercantile albanese Vlora (dolce perché trasportava zucchero) che l’8 agosto 1991 con 20 mila profughi in cerca di libertà e di lavoro sbarcò nel porto di Bari e della successiva azione politico-repressiva che portò al rimpatrio forzato dei clandestini, Vicari fornisce un dettagliato e serrato racconto, grazie al materiale girato allora dalla Rai e da Tele Norba, ma anche grazie ai testimoni italiani e albanesi della vicenda: documenta alla perfezione la storia che è particolarmente istruttiva per capire quello che accadde da lì ai prossimi vent’anni come invasione extra-comunitaria nel nostro paese. Le immagini della Vlora, che si muove nel Mediterraneo, sono qualcosa di incredibile e di biblico: rappresentano il primo grande terremoto dei popoli poveri verso quello che sembrava il paese del Bengodi. È davvero difficile dimenticare quella nave attraccata al porto, ancora più conturbante di quella della Costa Crociere capovolta al largo delle coste dell’Isola del Giglio, e quella massa sterminata di maschi affamati, assetatati, stremati dal viaggio. Molti scesero dalla nave ancora prima che l’imbarcazione fosse ferma, in cerca di aiuto e di cure sanitarie, e di quella libertà tanto vagheggiata dopo decenni di miseria e di dittatura comunista. Di questi disperati, solo 1 500 circa riuscirono a sfuggire alla polizia e rimanere in Italia, mentre gli altri furono rispediti a bordo di aerei di Stato in Albania, facendogli credere che sarebbero stati trasferiti a Roma. Il sindaco del capoluogo pugliese, Enrico Dalfino, insieme a molti concittadini, diede prova di grande solidarietà, fornendo il proprio aiuto ai profughi.

Oggi, secondo Patrick Nicholson, responsabile del Servizio comunicazioni della Caritas Internationalis, «l’Europa soffre di una crisi di solidarietà nei confronti dei rifugiati che bussano alle sue porte in fuga dalla guerra». Dopo la decisione dell’Austria di limitare gli accessi ai migranti e l’annuncio, da parte dell’Ungheria, di voler indire un referendum sulle quote obbligatorie, i Paesi della “rotta balcanica” hanno introdotto analoghe misure restrittive, soprattutto alla frontiera greco-macedone, dove possono passare solo profughi dalla Siria e dall’Iraq, muniti di validi documenti di identità. «Si è creato un effetto domino»: persone che vengono trattate come merci o pacchi, rimpallate da un Paese all’altro. In Grecia, già colpita fortemente dalla crisi, sono rimaste bloccate migliaia di persone senza le adeguate condizioni per un soggiorno più lungo, come alloggi, cibo, accesso all’acqua. La Caritas non smette di distribuire confezioni di cibo, kit igienici, medicinali, ma allo stesso tempo chiede che «l’Unione europea dia priorità alla vita ed ai diritti delle persone, anziché al controllo delle frontiere». Infatti, i migranti non sono ‘flusso’ o ‘invasione’, filo spinatoma uomini, donne, bambini e anziani a rischio. La ‘fortezza Europa’ – con muri, controlli e filo spinato – non scoraggerà le persone a rischiare la propria vita per arrivarci. Non è un fenomeno che nasce oggi. Tutti i trend relativi al numero di guerre, di rifugiati e di sfollati interni sono in aumento: il 2014 e il 2015 hanno costituito i picchi di un fenomeno ben noto. Le drammatiche testimonianze che ci giungono non fanno che rafforzare, di fatto, una preoccupazione rispetto all’Europa che ha perso lo smalto nelle sue qualità di accoglienza, di rispetto, di promozione umana. Si è chiusa in se stessa ed è diventata egoista. Per qualsiasi cosa che la tocchi, o le dia un po’ fastidio, si chiude a riccio. Meravigliano anche i Paesi scandinavi che per tradizione sono stati sempre molto accoglienti: la Svezia vuole rimandarne via 80 mila e così la Finlandia; la Danimarca, poi, si prende tutti i beni di questa gente.

E’ un problema l’immigrazione. Un coraggio e una disperazione senza fine: gente che vende, lascia tutto, scappa e si imbarca nelle carrette del mare… Un sussulto di compassione, di dignità e di solidarietà, da parte nostra.

La serata si è conclusa con un aperitivo. Il prossimo appuntamento è per venerdì 4 marzo, con la proiezione del film «Il padre» del regista tedesco di origine turca Fatih Akin, seguito dal cinedibattito sul genocidio degli armeni, il male e la sofferenza, la guerra e la migrazione, il potere di amore di speranza.

(pa)

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